Sfiorita ogni parvenza della rivoluzione dei Gelsomini – quella made in China – sedata duramente dalle autorità di Pechino all’occasione costrette ad arrestare anche i passanti, la strategia degli utenti Internet per aggirare le censure e dare luogo a mobilitazioni spontanee, compie ora un’ulteriore significativa azione. Si rivolge ad un supporto collettivo che opera in caso di violazione delle leggi da parte delle autorità. Ogni sopruso è controllabile. La parola d’ordine è “weiguan”, e sta a significare grosso modo “allerta in corso”.
Funziona così: l’utente diffonde immediatamente l’allarme su Twitter o sull’equivalente Weibo, e tutti i ‘follower’ sono messi a conoscenza di un eventuale abuso da parte delle autorità cinesi. Il micro-blogging funziona sempre più in mobilità. Dal telefonino parte il messaggio in codice, poi è una catena di San Antonio che genera assembramenti spontanei, rapidi, immediati. Così le proteste fioriscono silenziose all’ombra del web per poi riversarsi discrete nelle strade della Repubblica popolare, o davanti ai tribunali mentre si svolge un processo a un dissidente.
L’azione fulminea e Twitter offrono un’accoppiata garantita. Teng Biao, avvocato, esempio di “weiguan” puro, viene arrestato “brutalmente” in casa di un attivista ma riesce a a comunicare subito il fatto con un tweet, e di lì a poche ore diversi sostenitori si ritrovano di fronte alla questura a gridare il suo nome. L’avvocato racconta di aver subito minacce di morte dalla polizia ma che “…molti cittadini digitali si sono precipitati sul posto. Questa potrebbe essere davvero la ragione per cui siamo stati liberati così rapidamente”. Li Peirong, giovane insegnante di Nankin, si era impegnata pubblicamente in favore di Chen Guancheng, noto attivista dei diritti umani. Pochi istanti prima di essere aggredita mette in Rete la sua posizione: si trovava a 10 chilometri dal villaggio di quest’ultimo. Scatta la macchina del weiguan, decine di attivisti si rivolgono alla polizia che è costretta ad intervenire. Li Peirong racconterà proprio di questa nuova sensazione, di sentirsi in uno “Stato di diritto” e dirà: “E’ la prima volta che la polizia interviene nel caso di Chen Guangcheng. E’ una ‘vittoria’”.
Silenzioso, nell’underground tutto speciale del sino-web, corre il blogging del dissenso, quello che spaventa le autorità cinesi. Utenti che a migliaia celano la loro identità con sequenze di numeri, combinazioni oscure, lunghissime, cose che farebbero inorridire qualsiasi user dai gioviali nickname occidentali. Censura e “guardie rosse” del web non bastano con la loro fantasia e tecnica, troppo semplice aggirarle, per di più aggiungendo la beffa al danno. Ora annunciano su Internet delle passeggiate collettive di protesta silenziosa nei grandi viali delle metropoli, ora battezzano con nuovi nomi le frasi criptate in Rete. La grande muraglia informatica, il filtro fittissimo imposto da Pechino sul web, va erodendosi.
Una rivoluzione lenta, distinta da quelle maghrebine, gira caotica sulla libertà di espressione, protesa verso i diritti occidentali, e non è fame. Una web-revolution di avvocati, studenti, blogger, attivisti. Lanciano duri messaggi online: “Incoraggiamo i disoccupati, gli esiliati a manifestare, urlare slogan e reclamare la libertà, la democrazia e riforme politiche per mettere fine al partito unico”. Incuranti del cappio incombente che li soffoca. Su Twitter hanno pochissimi caratteri a disposizione, quelli che bastano anche alla scrittrice He Qinglian per ricordare che “Il paranoico governo cinese farebbe meglio a ridare il potere al popolo”.