Egitto: rimpasto o rivoluzione?


[Nota: l’articolo integrale di Francesca La Bella è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione, e ovviamente risale a prima degli ultimissimi avvenimenti, cioè le dimissioni di Mubarak di oggi 11 febbraio].

L’Egitto non è nuovo a mobilitazioni e proteste contro un governo dittatoriale e lontano dai bisogni della popolazione e, a seguito dei sommovimenti in Tunisia ed Algeria, il popolo che ormai da tempo si coordina attraverso internet e i social-network ha organizzato una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni. Oltre alle organizzazioni per i diritti umani, ad animare la piazza, vi erano esponenti della cultura e dello spettacolo, i Fratelli Musulmani che, dopo un’iniziale presa di distanza, hanno lasciato i loro membri liberi di partecipare, e l’opposizione liberale che vede in Mohamed El Baradei, ex direttore della IAEA (International Atomic Energy Agency), il simbolo dell’opposizione al presidente Hosni Mubarak.

Si chiedeva maggiore libertà d’espressione e minore militarizzazione del territorio, elezioni pluralistiche e limite dell’incarico presidenziale a soli due mandati, salario minimo e tutele contro la crescita dei prezzi dei beni alimentari. Con poca lungimiranza il governo ha, però, scelto di non ascoltare queste richieste: il titolare del dicastero dell’Interno, in un’intervista al quotidiano Ahram, ha affermato che la protesta non avrebbe avuto alcun impatto e che la garanzia dell’ordine sarebbe stato compito esclusivo delle Forze Armate. Immediatamente si sono verificati scontri anche molto violenti con la polizia, ma le proteste, invece che diminuire, sono esponenzialmente aumentate, estendendosi anche ad altre parti del Paese.

Nei giorni successivi l’escalation di partecipazione e di violenza è stata vertiginosa. Il governo ha cercato in ogni modo di bloccare l’affluenza alle manifestazioni. Coprifuoco, internet fuori uso, telefoni muti, mezzi di trasporto fermi e completa militarizzazione del Paese non sono, però riusciti ad indebolire le proteste: il 1° febbraio si contavano, nella sola capitale, circa 2 milioni di persone e varie decine di migliaia nelle altre città egiziane. Nel frattempo il Paese è caduto nel caos. In molte carceri si sono registrate evasioni di massa che hanno portato ai primi atti di vandalismo e saccheggio e la violenza, dentro e fuori dalle piazze, è stata terrificante. Se, secondo alcune fonti, le fughe e i saccheggi sarebbero stati favoriti dal regime per intimorire la popolazione e screditare la protesta, i fatti più cruenti sono accaduti nelle piazze.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha dichiarato, a tal proposito, che le persone decedute durante le proteste egiziane potrebbero essere circa 300, oltre 3000 i feriti e centinaia gli arrestati, ma il numero è in continua crescita, soprattutto a seguito dei fatti del 2 febbraio. Solo nella giornata di mercoledì si sono contati circa 1500 feriti a causa degli scontri tra rivoltosi e sostenitori del presidente Mubarak e lo spettro della guerra civile incombe sul futuro delle proteste.

Tanto è stato il caos che Mubarak, oltre ad annunciare che né lui né suo figlio Gamal si candideranno alle prossime elezioni, ha destituito l’esecutivo, provveduto allo scioglimento del Parlamento e nominato come vicepresidente (carica vacante dal 1981) Omar Suleiman, capo dei servizi segreti egiziani. Suleiman viene dalla dirigenza militare ed è stato, probabilmente, scelto proprio per questa sua provenienza. Dopo il ritiro delle forze di polizia, incapaci di gestire una situazione di tale portata, a mantenimento della calma nelle strade, è stato schierato l’esercito.

L’esercito egiziano è immensamente popolare e rispettato dalla popolazione e, dopo un’iniziale neutralità, ha scelto di schierarsi al fianco del popolo in rivolta: nel giorno della grande manifestazione da 2 milioni di persone, elicotteri militari lanciavano volantini sulla folla in cui veniva riconosciuta la legittimità delle rivendicazioni dei manifestanti e si esprimeva il rifiuto all’uso della forza per disperderli. A fronte di questo si può intuire la necessità di scegliere Suleiman come nuova guida del paese. Solo una figura così carismatica e legata agli ambienti militari potrebbe, infatti, impedire che l’esercito segua l’esempio tunisino e destituisca con la forza il governo Mubarak.

Il vero ostacolo alla mediazione, sia a livello interno sia a livello internazionale, è, però, l’ingombrante figura di Mubarak: venerdì 4 è scaduto l’ultimatum per la dipartita del rais e molti dei principali attori, dai Fratelli Musulmani al governo degli Stati Uniti, si sono detti disponibili al dialogo purché il presidente si ritiri dalla scena e venga sostituito da un soggetto di più degna fiducia. Suleiman potrebbe, dunque, essere l’unico interlocutore credibile per una fase di transizione il più possibile indolore, in attesa di nuove elezioni.

Le diverse anime della rivolta

LIBERALI

La galassia dell’opposizione a Mubarak è ampia e variegata, ma può essere significativo evidenziare le caratteristiche e il comportamento di alcune frange più attive nelle proteste di questi giorni. In quest’ottica è necessario ricordare il ruolo di due movimenti di protesta nati negli anni scorsi e attivi nelle proteste contro il rais: Kefaya (Basta) e il Movimento 6 aprile. Il primo, nato nel 2004 da intellettuali, professionisti e attivisti di provenienze politiche e culturali profondamente diverse, è stato il primo movimento che, attraverso l’uso di internet e dei social network, ha provato a organizzare l’opposizione contro il governo Mubarak. Il secondo, principale promotore della manifestazione del 25 gennaio, è, invece, un gruppo nato su Facebook allo scopo di sostenere lo sciopero indetto il 6 aprile 2008 dagli operai del distretto industriale di El-Mahalla El-Kubra (Delta del Nilo) e trasformatosi, in seguito, in movimento di denuncia della repressione, della corruzione e del nepotismo del regime.

Entrambi hanno trovato in Mohamed El Baradei, leader dell’Associazione Nazionale per il Cambiamento, la figura di riferimento per il futuro del Paese. Per quanto inizialmente abbia dichiarato di non voler prendere il potere, ma di voler solo contribuire ad una transizione democratica e pacifica, il premio Nobel, si è, infatti, posto alla guida del movimento di opposizione imponendo un ultimatum per il ritiro di Mubarak dalle scene e dichiarando in un’intervista alla Cnn di essere pronto a guidare l’Egitto qualora il popolo glielo chieda. Nonostante gli venga riconosciuto un ruolo di primo piano nel panorama egiziano, El Baradei sconta, però, la prolungata assenza dal Paese. La credibilità come futura guida del Paese delle piramidi è, infatti, minata dai 27 anni di permanenza negli Stati Uniti e dalla sensazione che il governo di Washington guidi le sue scelte. La mancata convocazione al tavolo delle trattative da parte del vice-presidente Suleiman, inoltre, rischia di indurre una fase di stasi difficile da sbloccare.

L’ ISLAM POLITICO

Se inizialmente i Fratelli Musulmani, principale movimento di opposizione al regime, si erano tenuti ai margini, a seguito dei duri scontri di piazza, hanno scelto di investire maggiormente nella protesta. A tal proposito Essam El Ariane, portavoce della Fratellanza, ha dichiarato che, colti di sorpresa dalla tempistica della protesta, hanno deciso di parteciparvi fin da subito perché i temi trattati erano da sempre centrali nella politica del gruppo. Questo è evidentemente dimostrato dai numerosi arresti di attivisti del gruppo, dal ruolo riconosciutogli in sede negoziale e dalla centralità delle moschee per il coordinamento delle proteste. La protesta è potuta iniziare senza che i Fratelli Musulmani, unico gruppo dotato della struttura necessaria a mobilitare migliaia di persone, ne fossero a conoscenza perché la situazione negli ultimi anni in Egitto è mutata enormemente e gli islamici non sono più l’unico soggetto di opposizione in campo. Nonostante questo, la presenza dei Fratelli Musulmani è stata strumentalmente utilizzata dal presidente Mubarak per intimorire alleati e oppositori. Il rais ha, infatti, dichiarato di non potersi ritirare in quanto una sua dipartita avrebbe lasciato campo libero alla propaganda islamica, al caos e al terrorismo, nonostante la Fratellanza non abbia un braccio armato e si sia dichiarata più volte disposta a dialogare con tutte le anime del Paese.

La manovra del presidente, però, non è riuscita e da un lato El Baradei, liberale e di formazione occidentale, ha spiegato al New York Times che i Fratelli Musulmani, pur essendo un gruppo religioso conservativo, non sono di natura estremista come spesso vengono dipinti in Occidente, avendo da tempo abbracciato il pluralismo democratico, e dall’altro Suleiman ha deciso di fare appello alla Fratellanza per giungere ad una transizione il più possibile condivisa. La scelta del vicepresidente, auspicata e incoraggiata dal governo statunitense nell’ottica di una stabilità che impedisca una radicalizzazione della rivolta, è stata apprezzata dalla Fratellanza che, oltre a ribadire che gli islamici non sfrutteranno le proteste per fini elettorali e, di conseguenza, non presenteremo un candidato alle prossime elezioni presidenziali, hanno accettato di partecipare al dialogo. Vari sono stati i temi affrontati durante i colloqui diretti (le dimissioni del presidente Mubarak, il diritto alla protesta nei luoghi pubblici, garanzie per l’incolumità degli aderenti al movimento) e, per quanto le concessioni fatte durante i colloqui siano state respinte come insufficienti e sia ancora in corso la diatriba sulla partecipazione di alcuni gruppi finora esclusi dal tavolo negoziale (come l’Associazione Nazionale per il Cambiamento di El Baradei), la strada della discussione è aperta.

[Nota: l’articolo integrale di Francesca La Bella è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].

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