Kenya: le ricadute derivanti dall’aumento mondiale del prezzo del grano

[Nota: l’articolo integrale di Rosa Chiara Scalici è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].

Il contesto globale del mercato dei cereali, e nello specifico del grano, sembra essere agitato da timori di crisi alimentare come quella insorta nel 2007-2008. Il settore del grano è precipitato per la decisione del Governo Russo di imporre il bando alle esportazioni fino al raccolto del 2011, a seguito della serie di roghi che ha distrutto il 20% delle coltivazioni. Essendo la Russia il quarto esportatore di grano al mondo, dopo Stati Uniti, Europa e Canada, la sua decisione ha creato allarme nel settore, gravato ulteriormente dalle previsioni sfavorevoli riguardo la produzione canadese, pakistana, ucraina e kazaka.

La FAO ed altre organizzazioni, come l’International Food Policy Research Institute (IFPRI), hanno però più volte ridimensionato il problema. Nonostante il bando alle esportazioni russo ed ucraino, altri grandi Paesi produttori non hanno ancora posto vincoli e, allo stesso tempo, la produzione, sebbene ridotta, è comunque superiore alla media degli ultimi 5 anni (Food Outlook June 2010, FAO). Infatti, il calo rispetto al 2009 è solo del 1% , poiché se molti Paesi produttori hanno avuto dei problemi, altri, come l’Argentina e l’Iran, hanno sostanzialmente aumentato la loro produzione.

Nonostante i rapporti sulla produzione reale ed attesa, il prezzo del grano è fortemente incrementato. Le fluttuazioni del prezzo hanno colpito i mercati globali, pesando maggiormente su quelli dei Paesi in Via di Sviluppo. Un aumento del 44% (80% secondo il Cereals Growers Association) del prezzo del grano sembra essere legato più alla paura, e alle speculazioni, che a dati certi. Le fluttuazioni, e la tesaurizzazione delle quantità disponibili sui mercati, potrebbero gravare talmente su alcuni Paesi poveri che la FAO ha tenuto il 24 settembre una riunione proprio per discutere della volatilità dei prezzi del settore.

Sebbene la crisi alimentare del 2008 avesse basi ben più solide, il 2010 potrebbe essere l’inizio di una nuova, basata su speculazioni e fluttuazioni dei mercati alimentari mondiali. Un ulteriore elemento di destabilizzazione potrebbe essere addotto da un aumento dei bandi alle esportazioni da parte dei Paesi produttori. Fortunatamente al momento solo Russia e Ucraina hanno posto questo veto, ma se si ripetesse il fenomeno del 2008, quando 30 Paesi produttori bloccarono l’esportazione di generi alimentari, la situazione potrebbe degenerare in modo molto veloce.

La possibile crisi mondiale del grano, e dei generi alimentari, va analizzata ulteriormente secondo i dati del Maplecroft’s Food Security Index 2010. Infatti, questi indicano i Paesi dell’Africa centro-orientale come quelli più a rischio per quanto riguarda la sicurezza alimentare. Tra questi, alcuni, come la Somalia, sono considerati a rischio estremo, mentre altri, come il Kenya, ad alto rischio.

Lo scenario kenyota

In Kenya il grano rappresenta il secondo prodotto, per consumi e produzione, dopo il mais. La produzione nazionale non copre il fabbisogno interno del Paese, quindi il Kenya è dipendente dalle importazioni. La materia prima viene trasformata da aziende locali e merciata prevalentemente sul mercato nazionale, mentre una piccola parte viene esportata sui mercati regionali.

Il settore del grano vede coinvolti diversi attori: in primo luogo, una maggioranza di piccoli produttori agricoli (fino a 5 ettari circa di terra coltivata cadauno), poco rilevanti per quanto riguarda la produzione; una minoranza di grandi produttori (più di 5 ettari cadauno), che contribuiscono invece per l’80% circa della produzione nazionale. Entrambe le tipologie di agricoltori sono comunque soffocate da una serie di problematiche, tra le quali mancanza di adeguata meccanizzazione e difficoltà d’accesso a prestiti vantaggiosi. Dall’altro lato, i produttori sono vantaggiosamente protetti da forti dazi doganali sulle importazioni di grano (dal 25% al 35%).

In secondo luogo, sono presenti sulla scena una serie di trasformatori della materia, sia mugnai che panificatori. Questi attori incontrano grandi ostacoli nell’approvvigionarsi in modo vantaggioso. Il prodotto nazionale è di qualità inferiore rispetto a quello importato e di tipo diverso rispetto a quello maggiormente usato nella raffinazione-lavorazione. Il prodotto interno dà infatti vita a farina cosiddetta “soft”, meno usata nella produzione industriale, e di scarsa qualità.

Allo stesso tempo il prezzo della produzione interna è regolato dalla Wheat Producers Association (WPA), organismo che rappresenta i produttori di grano, basandosi sul prezzo del grano importato, di per sé vantaggioso, falsato dai dazi. Di conseguenza il prezzo del prodotto interno è molto elevato rispetto al suo valore reale. Il grano importato risponde, invece, ai requisiti di qualità e tipologia. Il prezzo sarebbe ottimale in caso di una revisione dei dazi alle importazioni, ipotesi auspicata ma non ancora realizzata pienamente dal Governo.

In terzo luogo, possono essere considerati come attori le imprese estere, di raffinazione e trasformazione, che hanno margine d’azione nel mercato kenyota. Grazie al Protocollo di libero scambio COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa) e agli speciali accordi doganali nella East African Community (EAC, dazi al 5% tra Tanzania, Uganda, Kenya, Ruanda), i prodotti da Paesi come Egitto e Mauritius (COMESA), oppure Tanzania e Uganda (EAC), stanno arrivando sul mercato interno a basso costo, soffocandone la produzione agricola ed industriale.

Il pericolo maggiore è rappresentato dall’Egitto che, anche se a sua volta grande importatore di grano, è in grado di acquistare la materia prima a basso costo. Il prodotto trasformato può quindi poi essere esportato in Kenya, a minore costo rispetto a quello locale. L’unico argine all’invasione del prodotto egiziano potrebbe essere rappresentato da un miglioramento dello standard del grano locale, per il quale però necessitano molti investimenti.

Si trova svantaggiata così la produzione legata al settore del grano di un Paese, il Kenya, che prima di questi accordi aveva un grande potenziale di sviluppo, soprattutto nell’area regionale limitrofa. Elementi fortemente positivi, come la ben sviluppata industria di trasformazione e le buone connessioni viarie con i Paesi dell’area, avrebbero potuto ingrandire il commercio inter-regionale. Purtroppo gli accordi EAC, e il mancato investimento del Governo nello sviluppo locale, hanno fatto sì che questo processo subisse una flessione negativa.

Nel 2010 il Governo, nell’ottica di una politica comune tra i Paesi EAC, ha scelto di far scendere, per un anno, i dazi sul grano al 10%. Il primo luglio l’accordo doveva entrare in vigore in Kenya ma così non è stato per mancato adeguamento dell’Agenzia Doganale. Gli importatori hanno quindi trattenuto il carico nelle stive, in attesa di poterlo introdurre nel Paese con dazi ridotti, fino a metà agosto, quando il Governo ha imposto loro di scaricare la merce. In contemporanea gli agricoltori hanno ridotto le vendite del loro prodotto in attesa di un innalzamento dei prezzi, riducendo la disponibilità di grano sul mercato interno.

A seguito di ciò sono aumentati notevolmente i prezzi del grano, e dei suoi derivati, senza che nessun provvedimento governativo giungesse a soluzione del problema.
Quest’impasse rimane tuttora irrisolta e sia il Governo, che il Ministero per l’Agricoltura, sembrano indecisi riguardo alla procedura da mettere in atto (si veda su questo anche il video di kenyacitizentv relativo al conflitto sui dazi emerso l’estate scorsa)

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Conclusioni

La “guerra del grano” kenyota ha una natura molto complessa. Innanzitutto, il protezionismo ha favorito parzialmente la produzione di grano interna ma senza svilupparla, poiché non aiutata da oculate scelte politiche e da adeguate scelte dei prezzi da parte della WPA. Quindi rimane, e rimarrà vitale, l’utilizzo di grano importato, anche a fronte di un aumento della domanda.

In secondo luogo, i dazi sono stati un ostacolo allo sviluppo dell’impresa locale ed al consumo quotidiano della popolazione, anche se a volte sono stati aggirati con politiche di assistenza alimentare, dipendenti da scelte politico-economiche di altri Paesi.

Infine, il protezionismo rappresenta una limitazione al settore soprattutto in un contesto di liberalizzazione del mercato. Infatti, in un’ottica di liberalizzazione all’interno delle aree EAC e COMESA, il settore produttivo kenyota appare più protetto verso importazioni non appartenenti a questi due sistemi, ma completamente aperto a prodotti a basso costo dei Paesi EAC-COMESA.

Il dilemma in capo al mantenimento o meno del protezionismo pone sulla bilancia il soffocamento del sistema industriale interno, a fronte del deperimento del settore agricolo legato al grano. E’ ipotizzabile comunque uno scenario intermedio, rispetto ai due auspicati in precedenza. Infatti, è certo che le tariffe protezionistiche non potranno essere mantenute nel tempo per vincoli esterni e circostanze intrinseche all’economia di mercato. Allo stesso tempo, non deve essere dato per scontato il crollo della produzione agricola interna. A seguito di interventi governativi mirati allo sviluppo del settore, e con l’intervento di investitori stranieri e locali, la coltivazione del grano potrebbe svilupparsi diventando vantaggiosa a livello quantitativo e qualitativo per il Paese e per tutta l’area.

[Nota: stralci dall’articolo integrale di Rosa Chiara Scalici, pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].

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