C’è chi sogna di lasciare tutto e cambiare e vita, e prima o poi lo fa. C’è chi non lo cheap cialis online sogna, perché essere continuamente altrove è già la sua realtà.
Da questi due modi di vivere l’espatrio volontario prendono le mosse altrettanti siti-comunità — Voglioviverecosì.com e Expatclic.com (quest’ultimo declinato al femminile, attivo da 6 anni) — centrati su condivisione di informazioni ed esperienze, fornite da e per italiani che vivono all’estero.
Al tempo di viaggi letteralmente “consumati” in un weekend, spostare la propria vita “altrove”, in un Paese difficile, politicamente instabile e culturalmente lontano da noi, acquisisce un significato ancora più profondo che vale la pena di indagare.
Si tratta spesso di un percorso individuale di ritrovamento e riaffermazione della propria identità nel mondo, con alcune particolari varianti: il trasferimento in un Paese in via di sviluppo, ad esempio, obbliga ad un maggior confronto con l’altrove in cui ci si trova, con l’altro che si ha di fronte. Un confronto che mette in gioco l’identità e la obbliga ad una risposta chiara e precisa, ad uno spostamento fuori dall’identità e verso l’altro.
È il caso di Emiliano Sbaraglia, dottore di ricerca in Letteratura Italiana e insegnante precario che, deluso e senza occupazione dopo il taglio delle cattedre della riforma Gelmini, decide di andare ad insegnare in un piccolo villaggio di pescatori a sud di Dakar, in Senegal.
Qui si occupa dei corsi di alfabetizzazione presso il centro di accoglienza, e dei bambini talibè, figli di famiglie povere, che lavorano e studiano presso le scuole coraniche, ma per lo più vivono di elemosina. Come racconta lo stesso Sbaraglia nell’intervista a Cinzia Ficco:
Facciamo alfabetizzazione di francese anche a loro, e questo è molto importante. Di sera porto i bimbi a giocare a pallone, e loro sono felicissimi. Si sentono meno soli, meno abbandonati.
Emiliano, che ha anche scritto un libro sulla sua esperienza, Il bambino della spiaggia (Fanucci, 2010), progetta di tornare in Senegal per continuare a contribuire all’attività didattica e affittare una casa da aprire alla comunità, i bambini soprattutto, perché abbiano un luogo dove mangiare e lavarsi. Queste infatti le necessità basilari, oltre alle opportunità di lavoro per gli adulti.
…anche se è il mio espatrio più duro, l’Angola è rimasto nel mio cuore. Ho pianto le lacrime più amare della mia vita lasciandolo.
Invece Cristina racconta delle difficoltà affrontate durante l’espatrio in Arabia Saudita, che l’ha costretta in quanto donna occidentale a confrontarsi con le convenzioni sociali che lì regolano la vita delle donne: l’obbligo di indossare l’abaya, il divieto di camminare da sola o con altri che non fosse il marito, pena l’accusa di adescamento per la prostituzione, di rivolgere la parola agli uomini, di prendere i mezzi pubblici, di guidare… Alla fine, però, ricorda così quest’esperienza:
…è stato immensamente interessante e gratificante quando sono riuscita ad uscire dai miei canoni e incontrare le famiglie saudite che mi hanno introdotto al mondo arabo e alle sue tradizioni.
Ovvero, quando dall’identità ci è si spostati in un terreno comune di incontro e dialogo con l’altro — base di ogni convivenza civile, sia quando da emigranti (o “expat” come in questo caso) ci si trasferisce altrove, sia quando si è Paese e cittadini ospitanti di immigrati.
Secondo il Rapporto Italiani nel Mondo 2009 realizzato della Fondazione Migrantes (quello sul 2010 sarà prensentato il prossimo 2 dicembre a Roma), l’1.3% degli italiani emigrati vive in Africa e lo 0.8% in Asia. I racconti di questa piccola fetta di italiani che vivono nei Paesi in via di sviluppo possono, come dimostrano gli esempi di cui sopra, offrire un contributo prezioso e significativo. Le loro storie di integrazione aprono una finestra su quei luoghi, sia per chi vive la stessa condizione di expat, sia per chi quotidianamente si imbatte, anche solo per strada, in chi da quei Paesi è invece fuggito.