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Sguardi sull’Africa contemporanea dal London Film Festival

Lo scrittore keniota Binyavanga Wainaina ricordava qualche tempo fa in un suo post di quando, dopo aver letto alcuni articoli sull’Africa, in un moto di rabbia aveva deciso di scrivere alla redazione della rivista che li ospitava. Lamentava che i pezzi sull’Africa non raccontavano niente di nuovo, limitandosi a proporre un “reportage” dall’esterno, come se gli Africani non fossero coinvolti nel discorso, come se nel Regno Unito, dove viveva, non ve ne fosse traccia, mentre ce n’erano tanti ovunque, con molta probabilità persino “dirimpetto alla redazione” di quella rivista. Gli Africani, secondo Wainaina, si finiva per figurarseli sempre ‘laggiù’ in quei luoghi remoti dove “gente vestita in kaki” si reca in esplorazione e poi torna per “rendere testimonianza”. Così si poteva continuare ad additarli con sconcerto, sentendosi ‘altrove’ rispetto a loro.

Questa la genesi del sarcastico How to write about Africa che avrebbe poi scritto Wainaina, diventando di lì a poco una sorta di referente e, come nota lui stesso non senza ironia, uno cui a un certo punto mancava solo di brandire il timbro del “Nulla osta”, tanti erano quelli che lo consultavano prima di pronunciare qualsiasi cosa sull’argomento. Avrebbe poi scritto anche il seguito, “How not to write about Africa”, ma intanto il suo personaggio sarebbe rimasto associato a questa vicenda.

È passato un po’ di tempo e non sappiamo quanto c’entri Wainaina con le tendenze dei festival cinematografici, il fatto però è che i curatori di questa edizione del London Film Festival sembrano intenzionati a dimostrare che si può prestare attenzione a un continente senza farne automaticamente un ‘caso clinico’ di privazione permanente.

Sono oltre una decina, questa settimana, i film sull’Africa in programma alla 54a edizione della rassegna londinese. Ma la vera novità è che a combinarsi riccamente, come notava giorni fa anche un post pubblicato sull’Art Blog della rivista Spectator, sono storie diverse dalla tradizionale rappresentazione delle ricadute di colonialismo e guerre civili. Storie di avventura, di fatica, di riscatto, di contrarietà. Tutte, però, hanno in comune uno sguardo lucido, curioso, talora anche crudo, sull’Africa contemporanea.

Ci sono i giovanissimi protagonisti di Africa United che dal Rwanda intraprendono il viaggio che dovrebbe condurli in Sud Africa attraverso sette Paesi, nella prospettiva di una selezione calcistica cui il promettente Fabrice, cresciuto nel privilegio e avviato a un brillante futuro, è stato invitato da un funzionario della FIFA. Per l’imperizia organizzativa dell’amico Dudu, caparbio ragazzo di strada, salgono sull’autobus sbagliato che invece li condurrà in Congo, dove rischieranno di finire arruolati come bambini-soldato. L’avventurosa fuga non spegnerà l’entusiasmo di Dudu, incrollabile propulsore dell’ambizioso progetto di arrivare in Sud Africa, alla finale dei Mondiali di Calcio.

Nella vita di Khaled, in Microphone (2010) dell’egiziano Ahmad Abdalla, irrompe la vitalità della scena musicale underground di Alessandria d’Egitto. Di ritorno in patria dopo lunghi viaggi, il giovane vede fallire ogni tentativo di ricucire con l’ex-fidanzata e riallacciare con il vecchio padre, ma finirà per imbattersi nel mondo giovanile dei graffittari e dei cantanti rock e hip hop, un mondo vibrante che difende le proprie idee e le sorti dell’arte e della musica in cui si riconosce.

Dalle speranze dei più giovani all’impegno di un ex militante del movimento Mau Mau (artefice del Risorgimento kenyota). The First Grader (qui il trailer) di Justin Chadwick è il racconto di un uomo che, ormai ottantaquattrenne, vuole ripescare un’opportunità mai colta prima. Profittando del programma statale che offre a tutti l’istruzione elementare gratuita, il protagonista cercherà di soddisfare l’antico desiderio di imparare a leggere e scrivere, ma nella scuola locale cui si rivolge si scontrerà con la discriminazione verso un anziano come lui.

Un altro prezioso contributo è quello del regista Saki Mafundikwa, con il documentario Shungu: the Resilience of People (2009). Offre uno spaccato della società zimbabwiana raccontando le difficoltà in cui si dibattono, in un momento di grave crisi economica e disordine politico, due persone molto diverse fra loro, che si riconoscono in opposte parti politiche; e poi c’è un medico alle prese con il collasso del sistema sanitario e una giovane donna sofferente, gravemente malata, ma soprattutto priva di cure mediche basilari. Tutto ciò in un Paese ormai uscito dal radar mediatico, eppure ancora segnato da cicatrici profonde.

E, fra gli altri, non poteva mancare il documentario Benda Bilili (qui il trailer) dei francesi Renaud Barret e Florent de la Tullaye.

Staff Benda Bilili (nella foto) è l’ormai noto gruppo musicale formato da paraplegici senza tetto e bambini di strada congolesi che, dai sobborghi di Kinshasa, raggiungono la notorietà anche in Europa facendo musica e raccontando la vita di strada, la loro malattia,  i sogni che hanno, i valori in cui credono.

C’è tanto altro ancora nel programma del London Film Festival. Quella che comunque ci scorre davanti, passandolo in rassegna, sembra un’Africa non più fermamente ancorata a narrazioni di guerra, fame e violenza fratricida. E’ un’Africa che ci rimanda contrasti e lacerazioni, ma con essi anche il sapore fresco della ricerca di opportunità e quello amaro della fatica e della sconfitta, nella dialettica dei desideri e delle passioni umane che alimentano le vicende dei protagonisti e ce li avvicinano.

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