Cosa resta di Rosarno
Mentre a Rosarno è stato da poco inaugurato il nuovo anno scolastico nel segno della speranza per una nuova Calabria e, dopo due anni di commissariamento del Comune, si avvicinano le elezioni amministrative (28-29 novembre), non è tuttavia difficile avvertire il senso di oblio che avvolge quegli avvenimenti che pure suscitarono tanto clamore all’inizio di quest’anno.
Dobbiamo ringraziare il regista Andrea Segre, che ha deciso di recuperare il filo di quella storia e raccontarci cos’è successo nel frattempo ai braccianti africani che osarono ribellarsi alla violenza dei caporali e all’oppressione delle ‘ndrine.
“Il sangue verde”, il suo ultimo film-documentario presentato e premiato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ha il merito di tenere alta l’attenzione sulla scena di Rosarno. Nel blog ufficiale del film si legge quanto segue:
Per un momento l’Italia si accorge di loro [i migranti], ne ha paura, reagisce con violenza, e in poche ore Rosarno viene “sgomberata” e il problema “risolto”. Ma i volti e le storie dei protagonisti degli scontri di Rosarno dicono che non è così. Scovarle e dare loro voce è oggi forse l’unica via per restituire al Paese la propria memoria: quella di quei di giorni di violenza e quella del proprio recente quanto rimosso passato di miseria rurale.
Cosa ci raccontano i volti e le storie di Abraham, John, Amadou, Zongo, Jamadu, Kalifa? Dopo un periodo di vita per strada, la gran parte di loro è tornata nel Sud, tra il casertano e il napoletano. C’è chi è stato accolto dai Centri Sociali, dove oggi vive; uno di loro, dopo un periodo a Conegliano, è stato costretto dalla crisi a tornare a Rosarno, dove conduce la stessa vita di prima tra gli aranceti. Quasi tutti sono ancora contadini, e alcuni sempre schiavi.
Ma in questi giorni il pensiero non può andare soltanto a Rosarno: il 18 settembre di due anni fa sei immigrati africani vennero assassinati a Castelvolturno da un commando camorristico; l’anniversario di quel vergognoso episodio non è scevro da polemiche. E in questo gioco della memoria, come non ricordare l’ultimo concerto di Miriam Makeba, invitata proprio a Castelvolturno da Roberto Saviano per sostenere i lavoratori africani e combattere la camorra ?
In tutta questa sofferenza, non possiamo che accogliere con gioia una bella notizia, la recente nascita dell’Associazione Primo Marzo, dopo il successo ottenuto dalla prima giornata di sciopero dei migranti organizzata in Italia la scorsa primavera. Nel sito ufficiale del progetto si può leggere quanto segue:
La forma associativa consente (…) di stabilire in modo netto i criteri e i principi inderogabili del progetto, i valori che lo caratterizzano e che non possono essere elusi, a partire dal carattere meticcio che il Primo Marzo ha rivendicato sin dalla sua nascita e intende mantenere. Nel manifesto fondativo del Primo Marzo si legge infatti: Siamo immigrati, seconde generazioni e italiani accomunati dal rifiuto del razzismo, dell’intolleranza e della chiusura che caratterizzano il presente italiano.
Principi inderogabili sono anche la non violenza, l’apartiticità, la laicità, la trasversalità e la consapevolezza che la battaglia in difesa dei diritti dei migranti non può essere scissa da quella per i diritti in generale (e viceversa). Il razzismo e la xenofobia dilaganti, infatti, non sono mali circoscritti ma si inseriscono in un processo molto più generale e insidioso che mira a tagliar fuori dalla vita pubblica interi segmenti di popolazione (i migranti, i poveri, i non allineati…) e a distrarre dalle vere emergenze di questa nostra epoca
Non ci sentiamo ottimisti: tuttavia coltiviamo dentro di noi alcune famose parole di Vargas Llosa come un viatico per la speranza (traducendole a malincuore dallo spagnolo, ma ne suggeriamo la lettura in originale per apprezzarne la meravigliosa musicalità):
Le politiche anti-immigrazione sono condannate al fallimento, perché non risolveranno mai il problema alla radice; anzi, hanno l’ effetto perverso di minare le istituzioni democratiche del paese che le applica e di dare un’ apparenza di legittimità alla xenofobia e al razzismo, nonché di aprire le porte all’ autoritarismo.
Questo può sembrare molto pessimista a chi crede che l’ immigrazione – soprattutto quella nera, mulatta, gialla o, comunque, di colore – ha in serbo un futuro incerto per le democrazie occidentali. Non lo è per chi, come chi scrive, è convinto che l’ immigrazione, di qualsiasi colore e sapore essa sia, è un’ iniezione di vitalità, energia e cultura, e che i paesi dovrebbero accoglierla come una benedizione.
PS: per chiarimenti su come organizzare una proiezione del film “Il sangue verde” si legga qui.
A coloro che verranno – B. Brecht
Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.
Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’affanno?
È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
e sono perduto).
“Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.
Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Al mio tempo le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
Bel pezzo