18 Aprile 2024

La politica del closed access e il verbo ‘to Mubarak’

[Nota: Pubblicato dall’autrice in esclusiva su L’Indro e ripreso per gentile concessione]

La televisione già da tempo ci ha assuefatto alle violenze più atroci. E oggi anche i social media. Dove nella diretta che passa da uno smart phone o da un semplice cellulare si assiste a proteste, rovesciamenti di regimi e … omicidi. E se con la televisione chissà perché tutto si viveva con un senso di estraneità e di finzione, nonostante tutto, questo non accade con gli strumenti usati dai netizen. Forse perché ci sono meno filtri e regole. Forse perché ci si sente più coinvolti: storie di gente comune raccontate da uno di noi. E perché il citizen journalist fa crollare quel distacco che esisteva, e ancora esiste tra chi fa informazione ufficiale e chi ne è puro spettatore passivo.

Ecco perché non fa lo stesso effetto, guardare lo stesso evento postato nudo e crudo su Youtube e trasmesso e commentato da un giornalista su un canale televisivo. L’evento, drammatico e scioccante, a cui ci riferiamo è l’omicidio a sangue freddo di un ragazzo pachistano, accusato di furto, per mano di un soldato delle forze paramilitari che dovrebbero assicurare la sicurezza nel Paese.



Sequenze inequivocabili poi usate come prova per perseguire il poliziotto colpevole, già condannato a morte, mentre i suoi colleghi (i quali, come si vede dalle immagini, hanno assistito all’omicidio senza intervenire) sono stati condannati all’ergastolo.

Quello dell’utilizzo di video amatoriali come elemento di prova per indagini è un altro aspetto che riguarda l’uso dei social media. Ne avevamo già parlato in un articolo su Anders Bhering Breivik, il fanatico norvegese che il 21 luglio scorso ha ucciso 76 persone, sparando all’impazzata sui giovani arrivati per un raduno politico sull’isola di Utøya e facendo scoppiare una bomba nel centro di Oslo. L’autore della strage ha lasciato una serie di tracce disseminate in Rete ed è ripercorrendo quelle tracce che gli investigatori hanno cominciato a lavorare.

Ma anche la libera circolazione (apparente?) di idee e contenuti su Internet può rivelarsi un’arma a doppio taglio. E questo non solo in regimi reazionari ma anche nelle nostre rassicuranti democrazie. In Egitto è stato coniato il verbo to mubarak per indicare l’atto di reprimere la circolazione di messaggi online e chiudere Internet nel tentativo di arginare e bloccare le proteste. Quanto fece appunto l’ex presidente egiziano nei giorni più caldi della rivolta.

Oggi questo termine potrebbe adattarsi, in senso lato, all’atteggiamento del premier inglese Cameron che all’indomani delle rivolte che hanno sconvolto per alcuni giorni Londra e altre città della Gran Bretagna, in un discorso al Parlamento ha proposto che social network come Facebook e Twitter fossero interdetti per limitare le proteste e il passaggio di informazioni sulle stesse. Una proposta che sta causando piccoli problemi diplomatici con gli Stati Uniti fautori, soprattutto con l’amministrazione Obama, della libertà su Internet.

E vale la pena ricordare il discorso che il Segretario di Stato, Hillary Clinton, fece qualche mese fa proprio in occasione del giro di vite deciso da Mubarak riguardo all’accesso e uso di Internet. Un discorso in cui il Segretario di Stato riconosce ad Internet un ruolo di libero spazio di espressione come se si trattasse di una piazza “sia questa Tahir Square o Times Square. Le libertà di associazione e riunione riguardano anche il cyber spazio”. Certo, sottolineava il Segretario di Stato, ci vogliono alcune regole e rispetto nell’usare la Rete, ma in ogni caso “la moltitudine delle opinioni e delle idee che affollano Internet è il risultato della sua apertura e il riflesso della diversità degli esseri umani. Online tutti hanno voce e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo protegge la libertà di espressione”.

Si obietterà: Facebook e Twitter sono anche serviti per organizzare incontri di saccheggio e cose simili a Londra, ma non è limitando l’uso della Rete che si risolvono i problemi sociali che un Governo non è riuscito a prevenire. Questo è abbastanza ovvio. E usare due pesi e due misure per mondi apparentemente lontani ma che Internet avvicina e rende simili alla fine viene giudicata come la più sfacciata delle ipocrisie. Cutting social media is not the answer, meglio educarne all’uso, meglio capirne il valore – qual è stato finora e quale potrà essere ancora – meglio esserne consapevoli utilizzatori. Così la censura non avrà vita facile.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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