Lunedì 29 novembre Voci Globali e l’Associazione Nessuno presentano a Torino (CineTeatro Baretti, via Baretti 4, ore 21, qui maggiori dettagli) il film-documentario Il Sangue Verde: “La voce dei braccianti africani che nel gennaio scorso hanno manifestato a Rosarno contro lo sfruttamento e la discriminazione. 7 volti, 7 storie e un’unica dignità.” Testimonianze dirette che diventano occasione per uno sguardo sul passato e sul presente del lavoro agricolo in Italia.
In occasione dell’evento abbiamo intervistato il regista, Andrea Segre.
Siamo a novembre, a Rosarno si avvicinano le elezioni per il rinnovo del comune dopo anni di commissariamento e soprattutto sta per ripartire la nuova stagione degli agrumi. Sai se i braccianti africani stanno tornando, dopo quanto successo l’anno scorso? Qual è lo stato dei progetti per accoglierli? E come pensi sia possibile ristabilire una convivenza civile e fruttuosa a Rosarno?
Non ho informazioni dirette nell’ultimo mese, perché sono impegnato in un’altra produzione, per cui non sono lì nel territorio. L’unica cosa che posso dire è che intanto, finalmente, ci sono delle elezioni per avere una nuova amministrazione comunale: da oltre 6 anni la città è stata commissariata per mafia, e questo ha sicuramente facilitato l’ingestibilità della situazione e la forte preponderanza del potere mafioso nel territorio locale. Noi abbiamo chiesto, insieme a Peppino Lavorato e altri rosarnesi, che uno dei primi atti della nuova amministrazione comunale sia quella di assegnare il premio Valarioti, riconoscimento a quanti si sono distinti nella lotta contro la mafia, ai migranti che hanno protestato l’anno scorso. Si tratterebbe di un gesto piccolo ma molto importante e simbolico.
D’altronde l’amministrazione comunale può fare poco altro: amministrando ventimila abitanti, in una zona anche assai povera economicamente, gli interventi non possono essere che dello Stato, sia a livello regionale che a nazionale. Bisogna costruire strutture che rendano possibile l’accoglienza decente dei braccianti e la tutela dei diritti, sia dei lavoratori che dei datori di lavoro. E poi servono degli interventi di diverso tipo, di sostegno dell’economia locale, schiacciata dal peso della ‘ndrangheta e dalla globalizzazione economica, controllata molto spesso da sistemi criminali. Questo ci si augura che avvenga, ma fino ai primi di ottobre, quando avevo informazioni dirette, non c’erano molti segnali in tal senso.
Noi abbiamo avviato e linkato al blog del film un progetto – l’Osservatorio Braccianti — con cui cercare di fare informazione su tutto ciò; ma è ovvio che se queste misure non saranno prese, non si sarà ascoltato realmente l’urlo di rabbia dei migranti dell’anno scorso.
Proprio rispetto a quest’ultima iniziativa, come è stato ideato e sviluppato l’Osservatorio Braccianti in collaborazione con Ushahidi? Come pensate di far sì che questo progetto ‘virtuale’ possa davvero produrre un impatto significativo? Forse serve l’appoggio concreto del vostro network ‘reale’?
Credo che quanto accaduto a Rosarno abbia tre basi: una storica, ed è quella che cerchiamo di raccontare, cioè dell’evoluzione di una storia, di un paese che da paese di braccianti diventa di piccoli proprietari e di un paese dove il potere della ‘ndrangheta cresce di pari passo con l’apparato politico, e questo va spiegato e diffuso. Un altro aspetto è quello concreto, cioè le condizioni di lavoro e di vita, anche quest’ambito va affrontata territorialmente con politiche concrete, e non certo con il web. La terza chiave, però, è anche quella comunicativa, perché Rosarno è stato ciò che è stato perché qualcuno ha deciso di utilizzarlo mediaticamente in una fase in cui era molto utile avere una rivolta “dei negri da cacciare perché tutti clandestini”, e questo è stato l’impatto nella cultura e nella politica nazionali che ho cercato di affrontare e di raccontare.
Lo dico sempre, ‘Il sangue verde’ non è un film su Rosarno, anche se poi capisco che venga sintetizzato così. Per me è un altro film, sul rapporto tra l’Italia e le migrazioni, il che vuol dire in fondo il rapporto dell’Italia con sé stessa, con quel sé stesso che viene rappresentato dal linguaggio politico, con quel sé stesso che viene raccontato dai media ma che diventa anche un racconto per nasconderci, in qualche modo.
Quest’aspetto, questa parte di interesse della vicenda di Rosarno, è giusto affrontarlo comunicativamente, è giusto cercare di smascherare a livello di comunicazione l’ipocrisia e la demagogia che hanno caratterizzato quelle ore e che ha segnato ancora una volta l’utilizzo demagogico della xenofobia in questo Paese. Su questo tema stiamo peraltro cercando di lavorare da diversi anni, e lo facciamo andando nel territorio, organizzando decine e decine di proiezioni in tutte le province italiane, incontrando studenti, giovani, anziani, in centri culturali, biblioteche, università, cinema, festival, teatro, tutto ciò che esiste nel territorio e che noi chiamiamo “resistenza civile”. Lo facciamo anche su un altro territorio, che è quello virtuale, da cui l’idea dei blog, dell’Osservatorio Braccianti, l’idea di una partecipazione anche virtuale a questa costruzione di un’arena pubblica più attenta.
Ora stai preparando il lungometraggio di fiction Shun-Li e il poeta, dalla storia vera di un’osteria a Chioggia dove d’improvviso l’oste locale viene sostituita da una ragazza cinese. Come ne scrivi tu stesso, pare davvero un lavoro di incrocio tra i tuoi lavori sull’immigrazione e quelli di indagine sociale sul territorio veneto da dove provieni. Come mai questo nuovo progetto?
Stiamo raccontando il microcosmo di Chioggia, perché Chioggia è una delle realtà più ‘identitarie’ del Nord Italia, essendo tutt’oggi soprattutto un’isola di pescatori, è uno dei pochi luoghi del Nord, ma forse dell’intera Italia, in cui l’identità del lavoro è ancora segnale di identità culturale. In questo luogo, dove si avverte però una strana capacità di autoironia, di apertura e socievolezza, ci sono degli spazi alquanto specifici che sono le osterie. Nelle osterie si vive una socialità pubblica e privata nello stesso tempo. In quest’osteria, a un certo punto – è una storia vera, che succede ormai in tantissimi luoghi della socialità tradizionale come bar, osterie, trattorie – arrivano i cinesi, e c’è una cinese che lavora in questo bar. Questo microcosmo in mutazione diventa così la modalità con cui sto cercando di raccontare in un film — che è sia realtà sia metafora, un film che ho definito meta realista — il rapporto con l’altro nel contesto della storia contemporanea italiana.