29 Marzo 2024

COP17: accordo debole ma cresce l’attivismo

L’ambiente è in pericolo. I rapporti, gli studi scientifici e le ricerche pubblicati sia dagli organi ministeriali nazionali che da autorevoli centri di ricerca internazionali parlano chiaro: con questi ritmi di crescita economica e sfruttamento delle risorse naturali si rischia di compromettere seriamente il futuro del nostro pianeta. Per tentare di risolvere questi problemi, derivanti principalmente, dal riscaldamento globale, nel corso del noto Summit della Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992 fu istituita la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, con il fine di perseguire un “obiettivo non vincolante” per ridurre le concentrazioni atmosferiche dei gas serra al fine di “prevenire interferenze antropogeniche pericolose con il sistema climatico terrestre”. A partire dalla ratifica di questo trattato ambientale internazionale, gli Stati del sistema ONU (classificati in Paesi industrializzati, Paesi industrializzati che pagano per i costi dei PVS, PVS) hanno deciso di incontrarsi annualmente nella Conferenza delle Parti (da cui l’acronimo COP) per valutare le azioni intraprese per “governare” il cambiamento climatico.

Global Day of Action - March for action on climate change in Durban @COP17L’appuntamento del 2011 è stato ospitato dalla città sudafricana di Durban: 194 Paesi e 200 delegazioni si sono riuniti per due settimane di incontri, dibattiti, e workshop con l’obiettivo di trovare un accordo sulle emissioni di gas serra. Dopo scontri, mediazioni e ritardi l’accordo è arrivato e la nota positiva è che, al contrario di altri accordi internazionali stipulati finora, peserà sia per i Paesi sviluppati che per quelli in via di sviluppo.

Tuttavia la conclusione dei lavori e l’approvazione della cosiddetta Durban Platform è stata accompagnata da forti polemiche e sentimenti contrastanti. Innanzitutto perchè l’accordo entrerà in vigore (solo) entro il 2020 dato che nessuno Stato ha accettato nuovi limiti alle proprie emissioni e nulla è stato detto sui tempi e i modi della riduzione di CO2: in sostanza, è stato rinnovato il Protocollo di Kyoto (in vigore fino al 2012), evitando così il fallimento dei negoziati, ma sono state rimandate decisioni cruciali per il futuro della Terra. Critiche confermate dai comunicati subito diffusi dalle maggiori organizzazioni ambientaliste.

Analizzando le posizioni dei Paesi partecipanti si possono delineare diversi gruppi che all’interno dei negoziati hanno agito seguendo logiche prettamente lobbiste. E’ noto che i maggiori responsabili delle emissioni globali di CO2 sono gli USA e la Cina che, insieme all’India, concorrono alla creazione del 40% del riscaldamento globale: i primi decisero di non ratificare il Protocollo di Kyoto, i secondi lo ratificarono mantenendo comunque la libertà di rispettare o meno i vincoli imposti (modalità – seppur discutibile – prevista dal Trattato stesso). Nel corso della COP17 gli Stati Uniti, sostenuti da Canada, Australia e Nuova Zelanda, Russia e Giappone hanno praticato un forte ostruzionismo affinchè non venisse approvato nessun documento finale.

A questo blocco di Stati si è contrapposta la coalizione guidata dall’UE, la quale è riuscita a riunire sotto il suo “ombrello” diversi Stati africani – grandi e piccoli, numerosi Stati poveri dell’Asia, isole e arcipelaghi minori (che hanno dato vita all’alleanza AOSIS), nonchè il Brasile (che pur avendo ratificato il Trattato non ha mai rispettato le disposizioni di Kyoto) e il Sud Africa. Questo blocco ha sostentuto strenuamente la necessità di un accordo legale vincolante per tutti gli stati, in particolare per quelli che stanno conoscendo una rapida crescita economica (come la Cina), al fine di mantenere la variazione del riscaldamento globale sotto la soglia dei 2 gradi e preservare “l’integrità ambientale” di Stati più piccoli e più poveri. Una linea che alla fine è parsa essere quella prevalente.

Comunque sia, non va dimenticato l’attivismo esplicitatatosi dentro e fuori le sale del summit, oltre che ovviamente su Internet — consentendo così, forse ancor più che nelle precedenti COP, di ampliare al meglio la portata e il contesto di simili meeting spesso fin troppo ristretti agli addetti ai lavori e ai delegati istituzionali. Tant’è che, a chiusura dei lavori, la stessa segretaria generale dell’UNFCCC, Christiana Figueres, affidava a Twitter la sua cauta soddisfazione:

#COP17 nuova fase importante nella situazione del clima. Prossimo passo critico, pur se insuffucuente. Bisogna continuare ad alzare l’obiettivo.

E poi ancora, citando una famosa espressione del primo Presidente sudafricano dalla fine dell’Apartheid:

In onore di Mandela: sembra sempre impossibile finchè non ci si riesce! E ci siamo riusciti!

Anche Connie Hedegaard, Commissaria UE per l’ambiente che ha giocato un ruolo chiave mettendo assieme una coalizione molto forte di Stati sotto la leadership europea, racchiude tutta la sua soddisfazione in un tweet finale:

Ce l’abbiamo fatta. La strategia della EU ha funzionato. Abbiamo stabilito un percorso che segna un punto di svolta nella lotta internazionale contro il cambiamento claimatico. Buonanotte.

Come accennato sopra, gli ambientalisti e altri settori della società civile, però, non la pensano esattamente allo stesso modo. In loco, sono stati in particolare i giovani e i movimenti ambientalisti a “occupare” la scena dando vita a una sorta di contro-summit: ad esempio, Anjali Appaduraj, una studentessa americana, ha preso la parola nel corso del summit chiedendo ai delegati di assumere una posizione forte e decisa nei confronti delle riduzioni di CO2.

Prima ancora, nella giornata di sabato 3 dicembre, era stata organizzata una manifestazione pacifica per le strade della città. Si veda questo video.

Molto attivo è stato anche il collettivo Occupy Cop17 che ha organizzato una veglia per la giustizia climatica e diffuso una lettera aperta ai delegati della Cop17, dove in un passo si legge:

For 16 years / you have not heard us -/ so we are no longer asking. / The future of the 99% will not be written by your documents,/ but by our actions. / You cannot stop an idea who’s time has come / you cannot stop an idea who’s time has come. / So speak your heart / for there is no choice now / but change. / Welcome to 2012.

Occupy COP 17, foto Flickr di adopt a negotiator in CC

Anche la confederazione internazionale di ONG Oxfam International ha dichiarato la sua preoccupazione in una nota secondo la quale il mondo si sta dirigendo – quasi ignaro di quel che lo aspetta – verso l’innalzamento di 4 gradi delle temperature.

Se il dibattito su questi temi è quasi assente dai salotti politici nostrani e dalla carta stampata, su Internet la discussione assume  toni ancora molto caldi: su Twitter, gli hashtag #cop17 e #durban continunao a rigurgitare di messaggi in ogni lingua e da ogni dove.

C’è  poi anche chi, come la rete internazionale di movimenti e organizzazioni sociali e ambientaliste che va sotto il nome di Climate Justice Now, non ha esitato a definire la Piattaforma di Durban uno strumento che amplifica l’apartheid climatica, un cul-de-sac, una strada senza uscite. La loro non è una critica sterile: hanno una chiara visione del problema e diverse proposte. A loro avviso la via d’uscita dal disastro climatico c’è ed è rappresentata dall’Accordo dei Popoli di Cochabamba, un documento redatto nel 2010 nell’omonima città boliviana in risposta al presunto fallimento dei negoziati della Cop15 di Copenaghen, nel quale si parla di una Dichiarazione dei diritti fondamentali della Madre Terra, un referendum popolare mondiale sul cambiamento climatico e l’istituzione di un tribunale internazionale sul clima.

Analizzato il problema ci si interroga sulle soluzioni. E l’interrogativo rimane sulle modalità di approccio al “problema ambientale”. Sarebbe dovuto apparire quanto meno singolare affidare la soluzione delle emissioni dei gas serra a un sistema di compravendita di diritti di emissioni nocive (regolato, come previsto da Kyoto, dai principi del libero mercato). E infatti evidenti sono i risultati negativi dei recenti negoziati internazionali in materia ambientale.

Ben oltre certe iniziative ecologiche ‘politically correct’ ma spesso vuote, c’è ancora parecchia strada da fare: l’importante è  tenere viva la conversazione e coinvolgere i cittadini del mondo, oltre che dare ascolto ai loro commenti o proposte veicolate nei tanti spazi online.

Paola D'Orazio

Giornalista e blogger, seguo le evoluzioni del giornalismo multilingue e dei citizen media e mi interesso di economia dello sviluppo, cooperazione internazionale e politiche di sviluppo locale.

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