Si rafforza il movimento anti-Trump, ma il presidente lo ignora
Gli eventi di sabato scorso mi rendono molto fiducioso. Credo che parte della storia – trascurata dai media – sta nel fatto che stiamo assistendo alla nascita del maggior impegno di attivismo popolare mai visto dopo quello contro la guerra in Vietnam. E ciò va tradotto in azioni concrete.
Questa l’opinione di Al Gore, vicepresidente Usa sotto Bill Clinton (1993-2001) nel corso di un’intervista con Amy Goodman di DemocracyNow! per il lancio del suo nuovo documentario ambientalista (An Inconvenient Sequel) al Sundance Film Festival.
Analogo il senso della tavola rotonda radiofonica tenutasi pochi giorni fa su the1a, programma quotidiano della rete nazionale NPR (assai seguito nel format precedente e ora ispirato al Primo Emendamento della Costituzione, a tutela della libertà d’espressione). Fra gli ospiti in diretta, anche Astra Taylor (già coinvolta in Occupy e autrice di un importante libro del 2014 su potere e cultura nell’epoca digitale, The People’s Platform), si è detta “piena di speranza” per gli sviluppi futuri di questo movimento in fieri, “purché riesca a superare certe contraddizioni interne”.
Le ha fatto eco Bhaskar Sunkara, direttore della rivista Jacobin, “voce portante della sinistra americana” con 20.000 abbonati al trimestrale cartaceo e oltre un milione di visite mensili sul web. Ribadendo due punti chiave: “per costruire un movimento di massa anti-Trump, occorre coinvolgere i nuovi arrivati in maniera produttiva” e “il termine ‘socialismo’ è tabù in America, meglio evitarlo e avanzare proposte pratiche in cui la gente possa riconoscersi, come ha provato a fare Bernie Sanders”.
Al momento, dunque, l’AltrAmerica dibatte su come creare un movimento di massa, organizzato e capace di bloccare le attuali policy conservatrici e il nuovo corso presidenziale. Compito tutt’altro che facile ma non certo impossibile. Si tratta di coagulare al meglio la voglia di darsi da fare dei milioni di persone scese in piazza lo scorso fine settimana e concretizzarne l’impegno a sostegno di un fronte unico e riconoscibile (come negli ’60-’70, appunto, con i successi dei movimenti contro la guerra in Vietnam o per i diritti civili degli afro-americani).
In attesa di prossime manifestazioni di piazza (oltre a uscite estemporanee, come quella “a effetto mediatico” degli attivisti di Greenpeace mercoledì scorso, nella foto di fianco), le energie sparse vanno riversandosi soprattutto online. A partire dai tanti gruppi e cittadini continuano a monitorare attentamente le prime, controverse iniziative dell’Amministrazione Trump. Come stanno facendo le organizzatrici della #WomensMarch, che invitano quanti vi hanno preso parte a non demordere, portando avanti “10 azioni per i prossimi 100 giorni“. Il primo suggerimento è stampare, compilare e spedire cartoline per opporsi alle nomine governative ai parlamentari statali per cui si è votato.
D’altronde quest’ultima strategia (farsi sentire dal proprio rappresentante al Congresso) è tradizionalmente diffusa ed efficace in Usa – pur senza mai raggiungere le pressioni delle potenti lobby di settore, ovviamente – pena la mancata rielezione al prossimo giro. C’è poi il Progressive Action Daily: dare una mano agli attivisti locali della coalizione Stay Nasty America. E ancora, oltre 25.000 persone hanno aderito all’appello lanciato da MoveOn, con l’annessa chiamata alla mobilitazione per opporsi al “devastante piano di Trump e del GOP“.
Fra le innumerevoli petizioni che continuano a circolare online, ha veloce quella che richiede l’immediata diffusione della dichiarazione dei redditi di Donald Trump. Questione che, dopo un’impennata di attenzione durante la campagna elettorale, è andata via via scemando e nei giorni scorsi è stata liquidata dalla sua stratega mediatica Kellyanne Conway e dallo stesso Trump: “La cosa interessa solo i media, non gli elettori, e visto che abbiamo vinto, non se ne parla più”. Tuttavia, grazie anche al rilancio del New York Times, la petizione ha rapidamente superato le 345.000 firme sulla pagina web “We the People“, rimasta (stranamente?) attiva con il cambio di Amministrazione, mentre altre sono sparite nottetempo, tipo quella con informazioni sul cambiamento climatico e sull’Obamacare. E dove i cittadini possono sottoporre questioni pubbliche importanti e su cui il governo deve fornire formale risposta una volta superata la soglia delle 1000.000 firme. C’è forse d’attendersi ulteriori sotterfugi o plateali bugie?
Infine, rispetto agli attacchi e alle manovre per mettere il bavaglio all’informazione indipendente, soprattutto in ambito digitale, va segnalato un intervento dell’ex responsabile della Federal Communication Commission, Tom Wheeler:
Il piano di “modernizzazione” dell’agenzia è in realtà un modo per consentire ai maggiori fornitori d’accesso a internet di sfuggire a sostanziali controlli sul loro operato.
Con la nomina del repubblicano Ajit Pai, sostenitore della deregulation e opposto alla Neutralità della Rete , si teme cioè il ritorno alle corsie preferenziali per certi siti e contenuti, a scapito di quella che pareva una conquista ormai definitiva (dal 2015) per affermare la cosiddetta “Open Internet”. Motivo per cui soprattutto su Twitter cresce la mobilitazione a difesa della #NetNeutrality, oltre che a prevenire censura e sorveglianza, con annesse analisi e petizioni (ottima questa di DemandProgress!).
Un ulteriore filone di partecipazione che va rafforzando l’opposizione al nuovo corso conservatore, e che – poco ma sicuro – quanto prima darà man forte al nascente movimento di massa anti-Trump.
Non vedo, non sento… ma parlo!