Libia, trappola per i migranti dell’Africa sub-sahariana

[Traduzione a cura di Giorgio Guzzetta, dall’articolo originale di John-Paul Rantac pubblicato su OpenDemocracy]

Bare predisposte a Palermo dopo l'ennesima tragedia di migranti, giugno 2014. Lucio Ganci / Demotix. Tutti i diritti riservati

L”arrivo della primavera ha portato un aumento del numero di migranti nel Mediterraneo, migranti che rischiano la vita su fragili e sovraffollate barche, in un viaggio della speranza dal Nord Africa all’Europa alla ricerca di una vita migliore. Purtroppo, però, l’attraversamento del Mediterraneo è anche sinonimo di morte, come il recente tragico caso dei 17 immigrati, annegati mentre cercavano di raggiungere l’isola italiana di Lampedusa, continua a dimostrare fin troppo chiaramente.

Un nodo centrale lungo il percorso migratorio è la Libia. Dopo la rivolta del 2011, il Paese ha ripreso il suo ruolo di destinazione-chiave e Paese di transito per rifugiati e migranti (per motivi economici) dal Nord Africa, Africa sub-sahariana e Medio Oriente. Sono in molti a fuggire miseria, conflitti e violazioni dei diritti umani, con l’obiettivo comune di raggiungere l’Europa. Ma prima che possano iniziare il loro viaggio attraverso il Mediterraneo, devono sopravvivere alla trappola per migranti che è oggi la Libia.

Nel maggio 2013, la Libia ha approvato la Political Isolation Law, simile alla de-baathificazione nell’Iraq del dopo Saddam, che impedisce a chiunque sia stato coinvolto col regime di Gheddafi di lavorare all’interno del nuovo Governo. A causa della carenza di leader politici e di professionisti qualificati, questa legge ha reso di fatto impossibile la creazione di istituzioni statali funzionanti e l’attuazione delle leggi necessarie per la transizione della Libia da regime autoritario a Paese democratico.

Intermediari del potere

I miliziani, avendo de facto acquisito il ruolo di agenti del potere in Libia, si sono arrogati la responsabilità di liberare il Paese dai migranti indesiderati. Spinti dal loro presunto “dovere patriottico”, ne hanno arrestato migliaia, prevalentemente neri, spesso puntandogli contro la canna di una pistola.

Gli arresti possono avvenire ovunque e tutti coloro che sono privi di “adeguata documentazione” vengono trasferiti in centri di detenzione gestiti dal Governo o dai miliziani stessi. Qui sono trattenuti a tempo indeterminato finché non se ne decide la sorte. Si calcola che al momento una media di 4.000 e 6.000 migranti sono  detenuti in Libia.

Al momento di entrare nei centri, come nel famigerato carcere di Abu Salim e nelle gallerie sotterranee dello zoo di Tripoli, i migranti sono sottoposti a screening per l’HIV, l’epatite e la tubercolosi. I malati vengono immediatamente espulsi. Quelli che restano si indeboliscono rapidamente a causa delle continue percosse, dei servizi igienici inadeguati e della mancanza di cibo e di acqua potabile (alcuni detenuti di Abu Salim sono ridotti a bere acqua di colonia). Ovviamente, in conseguenza di ciò  si diffondono molte malattie , ma a molti migranti, in particolare gli africani neri che sono considerati (perversamente) portatori intrinseci di malattia, sono negate adeguate cure mediche per motivi di bilancio e per xenofobia.

Non potendo accedere all’assistenza consolare, i detenuti non hanno idea di quale sarà il loro destino né quando qualcosa accadrà. Il risultato più probabile è la deportazione: nel 2013 la Libia ha deportato 25.000 migranti, principalmente in Niger e Ciad.

In assenza di un sistema di asilo a livello nazionale, e non avendo firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951, la Libia ha avuto piena libertà di improvvisare e portare avanti politiche che discriminano africani sub-sahariani bisognosi di protezione. Le autorità hanno invece accolto molti siriani, che sono liberi di iscriversi come richiedenti asilo, ottenendo in questo modo l’accesso ai servizi pubblici. Ma Amnesty International ha riferito che ai richiedenti asilo provenienti dall’Africa sub-sahariana è stata in gran parte negata questa opportunità, aumentando così il rischio di detenzione. Notizie infondate di mercenari neri che avrebbero combattuto in nome del colonnello Gheddafi durante la rivolta hanno portato i libici a percepire gli africani sub-sahariani come una minaccia alla sicurezza nazionale, alimentando il desiderio delle milizie di arrestare gli immigrati neri.

Inettitudine politica 

La fase di transizione in Libia è stata caratterizzata da inettitudine politica e da violenza diffusa e incontrollata, creando le condizioni perché venissero perpetrati abusi su migranti e richiedenti asilo. La Libia ha bisogno di proteggere i diritti dei propri cittadini stranieri mediante l’attuazione di una politica migratoria coerente con gli standard internazionali.

Per prima cosa, è necessario abolire la Political Isolation Law che mina la riconciliazione nazionale, fa deragliare il processo di democratizzazione, destabilizza la sicurezza e provoca il collasso di numerose funzioni statali e servizi pubblici. Per la Libia sarebbe più utile l’adozione di un sistema di riconciliazione, simile alla dottrina islamica della tawba, che faciliterebbe il ritorno di alcuni ex-funzionari del regime di Gheddafi a posizioni di Governo. La loro esperienza politica potrebbe contribuire a garantire lo Stato di diritto, una precondizione della riforma politica.

La Libia deve anche capire che la sua politica di detenzione-e-deportazione è controproducente in un Paese che soffre di carenza di manodopera. Prima della rivolta, c’erano circa due milioni di lavoratori stranieri in Libia, ossia circa un terzo della forza lavoro. Sono stati molti i migranti senza documenti che hanno riempito un vuoto nella fascia inferiore del mercato del lavoro, lavorando nei campi petroliferi e nei cantieri edili. A causa della persistente instabilità ormai ce ne sono solo mezzo milione.

Sarebbe nell’interesse della Libia fornire permessi di lavoro e visti per gli immigrati necessari a riportare la produzione di petrolio a livelli pre-conflitto e ad aiutare nella ricostruzione del Paese, le cui infrastrutture distrutte dalla guerra offrono ricche opportunità per gli investitori. Con la fine della persecuzione della popolazione migrante, dunque, la Libia potrebbe essere in grado di riavviare l’economia e realizzare gli obiettivi della sua rivoluzione.

Giorgio Guzzetta

Accademico errante, residente a Roma dopo vari periodi di studio e lavoro all'estero (Stati Uniti, Inghilterra e Sudafrica). Si è occupato di letteratura italiana e comparata, globalizzazione culturale, Internet e nuovi media. Occasionalmente fa traduzioni dall'inglese e dal francese.

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