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Africa, la cera pongo per costruire immaginari e titoli di stampa

L’informazione sull’Africa e sugli africani, le storie che da lì provengono, sono molto spesso viziate da un pregiudizio di fondo. Quello che – coscientemente o meno – ci porta a giudicare tutto con una lente distorta. La lente del vecchio concetto – prima schiavista, poi missionario, poi coloniale – dell’Africa come “dark continent“.

E così i nostri media continuano a pubblicare solo le questioni più “succulente”, a evidenziare il ruolo degli occidentali nella sua rinascita o salvezza o – al contrario – a pubblicare articoli sottolineando con enfasi il cambiamento epocale che il continente sta vivendo nel secolo in corso.

Non so quanto tempo ci vorrà e se mai accadrà, ma forse un giorno l’Africa (parlo di quella sub-sahariana) smetterà di essere un oggetto strano, diverso, modellabile a piacere come un pongo. E smetterà di essere considerato il continente della disperazione e del bisogno.

Perché è questo quello che emerge dalla stampa italiana. Sono imbarazzanti titoli che ci presentano come samaritani che spendono il loro tempo, energie (e persino le ferie!) per andare a curare, salvare, aiutare. Titoli dove la semplice azione di fare il servizio civile è un’opera di bene senza precedenti. Un’opera che lascia un impatto indimenticabile sulle popolazioni locali. Titoli dove una cantante ha un cuore grande perché va in Kenya tra le donne che hanno subito la mutilazione genitale.

È imbarazzante la scelta dei giornali di occuparsi della pruriginosa storia dell’Imam ugandese “truffato” perché ha sposato un uomo e non se ne è accorto. Gente che scopiazza a vicenda “moschea di Kyampisi nel distretto di Kayunga, nell’Uganda centrale” non avendo probabilmente idea, non dico di dove sia il distretto di Kayunga, ma forse nemmeno di dove si trovi l’Uganda. Giornali che poi di questa Uganda, dove accadono fatti così stravaganti, non hanno forse mai scritto prima una riga.

È imbarazzante che la notizia dell’elezione di Sahle-Uork Zeudé alla presidenza dell’Etiopia “prima donna mai eletta…” e bla bla bla, continui a circolare ancora dopo due anni sui social come una novità di cui stupirsi e ripescata da certi giornali un anno dopo, e in calce al pezzo (ovviamente non originale) la scritta, bella in grande, “©RIPRODUZIONE RISERVATA”. A parte che Zeudé non è stata la prima in Africa, ci pare davvero così strano che gli africani possano eleggere una donna presidente? O è più strano che noi non ci siamo ancora riusciti?

Imbarazzante, ridicolo. Maldestri tentativi di “stare sul pezzo”, di occuparsi di questo continente che, per l’opinione pubblica, ha cominciato ad esistere quando sono stati i barconi a portarcelo in casa.

E poi c’è quell’altra narrativa, quella seria, professionale, scientifica. Quella che, dati alla mano, (ma anche con un certo ritardo rispetto  a quanto è in atto da tempo ma da noi trascurato) l’Africa è il continente del futuro, quello della crescita, dello sviluppo, degli investimenti. Il continente che non smette mai di stupirci, delle start-up e dell’innovazione. Il continente in giacca, cravatta e con l’iPhone tra le mani.

Dimenticando però, in questo caso, che il 34% della popolazione del continente vive in condizioni di povertà estrema – quasi 440 milioni di persone. Cioè avendo a disposizione meno di 1 euro e 70 centesimi al giorno per nutrirsi e vestirsi (bisogni primari, tutti gli altri – scuola e salute, per esempio, sono esclusi). Dimenticando gli slum. Dimenticando – ancora un piccolo esempio – che nell’Africa sub-sahariana il 71.8% della popolazione urbana vive nelle baraccopoli. La più alta proporzione al mondo.

E allora? Allora l’Africa è così, un immenso agglomerato di plastilina che ognuno modella per trarne la forma che gli serve. Togliendo, tagliando, nascondendo. O esagerando.

Poi sì, certo, una notizia è una notizia, è va data per quel che è. Ma, giusto una riflessione: non sembra che queste stesse dinamiche comunicative siano applicate agli altri continenti. Non ci imbatte così spesso in titoli che lodano volontari – siano medici o studenti – che se ne vanno a fare del bene negli slum di Calcutta. Non fa impressione se un nostro connazionale lascia tutto e se ne a vivere in Australia. E una domanda: perché continuare a fare un brutto servizio all’Africa e al giornalismo italiano? Davvero non riusciamo a fare meglio?

“African Metropolis. Una città immaginaria”. Foto della mostra tenutasi al MAXXI nel 2018, tratta dal Ministero degli Esteri.
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