Siamo fatti di stelle ma ci rotoliamo pietosamente nel fango. Non che il fango non sia anch’esso espressione delle stelle. Il fatto è che noi pensiamo sia lurido e nient’altro.
È da tempo che gli scienziati ci dicono che la nostra natura è perfetta, vive dentro l’universo e non separata da esso, è fatta delle stesse sostanze delle galassie. È da tempo che la scienza “conferma” le illuminazioni dei buddha, dei filosofi, dei pensatori liberi. Eppure non ci basta. Ma visto che non ci costa nulla ricordarlo, facciamolo.
La fisica quantistica ha dato voce a un fenomeno – noto dall’infinito passato – quello dell’entanglement. Vuol dire intreccio. Vuol dire connessione, relazione.
La Rete di Indra, ovvero dell’origine dipendente, lo aveva già spiegato millenni fa. Non siamo un’isola, nessun uomo è un’isola. Ma nello stesso tempo siamo uno e siamo tutto. Non siamo parte della natura, siamo la natura. Non siamo parte dell’universo, siamo l’universo. E non siamo parte della società, siamo la società.
Il mondo basato sulla conquista, il possesso, il denaro, ha creato e man mano rafforzato la dualità, la separazione. Io e gli altri. Io e la natura. Io e il mondo. Barriere su barriere, tirate su per stabilire “noi e loro”, “nord e sud”, “ricchi e poveri” e pure “potenti e sfigati”. Ma, guardate un po’, è la scienza – se proprio non ci piacciono i buddha, i filosofi, i liberi pensatori – a dimostrare che “non abbiamo capito nulla”.
C’è un documentario, il titolo è “Un altro mondo” di Thomas Torelli, che ha il pregio di mettere insieme voci, competenze ed esperienze che convergono verso una semplice verità: “Io sono il tutto” e sono io – quando prendo coscienza che la natura e gli altri non sono diversi da me, che posso cambiare le cose. Che posso cambiare il mondo e il futuro di questo mondo.
Nel buddismo c’è un concetto, itai-doshin, semplicemente vuol dire ”diversi corpi, stessa mente”. Dove la mente è la direzione, lo scopo ultimo, ma anche l’origine. Le stelle, appunto. La materia delle stelle, la materia dell’universo. Noi. Quel noi che dovrebbe staccarsi dalla forma, dalla dualità, per capire che non siamo un’isola.
Qualche sera fa ho avuto modo di incontrare e parlare con Agide Melloni. Chi è? Oggi è un uomo adulto che – ormai quasi 38 anni fa – si trovò a trasportare morti invece che vivi. Era un autista di autobus che per quei casi della vita era di turno il 2 agosto del 1980, giorno della strage alla stazione di Bologna. Il 37 diventò l’autobus della morte, per trasportare salme e alleggerire il lavoro delle ambulanze che invece combattevano per quelli ancora vivi.
Ho incontrato Agide in occasione di uno degli eventi del Cantiere 2 agosto, un progetto nato per dare volto e voce a quelle 85 vittime della strage. “Trasportavo dei corpi, coperti da lenzuoli bianchi – ha raccontato Agide – dopo anni so chi sono, so chi c’era sotto quei lenzuoli. Conosco le loro storie, le loro vite”.
Il mondo è stato ed è pieno di fosse comuni, di morti senza volto e senza storia. Dimenticati. Numeri. Migliaia di palestinesi, migliaia di congolesi, non si sa quanti siriani, e via discorrendo. Non ci saranno iniziative o progetti che avranno lo scopo di riportarli nella memoria viva. Ma tutto questo male rimane sospeso e agisce nella catena infinita di relazioni che ci unisce. Dovunque siamo, qualunque lingua parliamo, qualunque credo professiamo. Che ci piaccia o no noi siamo uno. Se lo capissimo finiremmo di distruggere e cominceremmo a essere felici.
Quei lenzuoli bianchi sono come il velo di Maya, il velo che nasconde, che ci rende prigionieri della nostra mente. Quel velo che crea e alimenta le illusioni e che ci distanzia dalla nostra vera natura. Quella di esseri perfetti in un cosmo perfetto. Imperfetti in un mondo voluto imperfetto.
Uno dei Bodhisattva della tradizione buddista è il “bodhisattva mai sprezzante” che si inchina agli altri anche se gli lanciano pietre e insulti. Non equivale a “porgi l’altra guancia” o prosaicamente “lasciati picchiare” ma significa “riconosco la natura di buddha che c’è in te“, vale a dire che tutti siamo riconducibili alla legge fondamentale della vita. E “Ama il prossimo tuo come te stesso” è quell’esortazione che invita a riconoscere in sè stesso l’altro e viceversa, che invita a specchiarsi nell’altro. Oggi, ancora una volta, la scienza dà forza e riconoscimento a queste parole. Gli studi sui neuroni a specchio hanno messo in rilievo l’innata capacità empatica degli individui, di comprendere emozioni e dolori degli altri.
E allora? Perché ignoriamo questa capacità? Forse semplicemente perché non ci amiamo abbastanza (amarsi non è adularsi, né inorgoglirsi), forse perché navighiamo nell’oscurità fondamentale – che ci impedisce di riconoscere la nostra natura illuminata. E forse perché non riusciamo a credere di essere fatti della stessa materia delle stelle.