[Nota: l’articolo integrale di Nunzio Donzuso è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].
La nuova leadership delle red shirts
La neo-leader dello United Front for Democracy against Dictatorship (UDD, Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura), Thida Thawornseth, ha annunciato l’intenzione di invitare degli osservatori della Corte di Giustizia Internazionale a Bangkok per assistere al processo contro i leader delle red shirts. Si tratta di un vasto movimento popolare di protesta che chiede la fine dell’attuale governo – considerato dalle red shirts illegittimo, in quanto formatosi dopo che la coalizione di maggioranza, regolarmente eletta nel 2007, fu costretta l’anno successivo alle dimissioni da un colpo di mano militare, e i partiti che la costituivano vennero messi al bando – ed elezioni anticipate per un ritorno effettivo alla democrazia.
Il 4 gennaio 2011, la Corte Penale thailandese aveva negato ai suoi leader la libertà su cauzione, e pertanto i sette imputati rimangono tuttora sotto custodia cautelare nel carcere di Bangkok con l’accusa di terrorismo e istigazione alla violenza.
In risposta all’apparente intransigenza del Governo, decine di migliaia di red shirts hanno manifestato domenica 10 gennaio lungo le strade di Bangkok, radunandosi davanti al Monumento alla Democrazia e dirigendosi quindi verso il distretto commerciale di Ratchaprasong – luogo in cui, la scorsa primavera, morirono più di 90 persone negli scontri con le forze governative – per commemorare le vittime e chiedere la liberazione dei manifestanti ancora in carcere. Un’altra manifestazione è ora programmata per il 23 gennaio 2011.
Dal 1 dicembre 2010, sotto la leadership di Thida – ex militante del Partito Comunista Thailandese e moglie di Weng Tojirakarn, uno dei leader in attesa di processo – il movimento delle red shirts, dopo il duro colpo inferto dal Governo ai suoi quadri, sembra essersi riorganizzato e in grado di riprendere con rinnovato vigore le proteste.
Tuttavia, un’importante novità, che sottintende un decisivo cambio di strategia nell’UDD, è rappresentata dall’esplicito impegno del movimento a manifestare pacificamente, limitando al minimo i disagi per i comuni cittadini, allo scopo di conquistare il supporto dell’opinione pubblica nazionale e internazionale e di contrastare il tentativo di delegittimazione perpetrato dal governo ai danni delle red shirts. Ancora più significativa è la presa di distanza politica di Thida dall’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, che potrebbe costituire un mutamento di rotta decisivo all’interno del movimento. Tuttavia, se tale mossa rappresenta certamente un primo passo verso un’auspicabile riconciliazione nazionale, i conflitti e le tensioni che attraversano il territorio thailandese e che stanno alla base dell’instabilità politica degli ultimi anni rimangono ancora ben lungi dall’esser risolti, rendendo fin qui prematuri i facili ottimismi.
L’ascesa politica e l’esilio di Thaksin
La controversa figura di Thaksin – che domina la scena politica thailandese da quando nel 2001 il Thai Rak Thai (“I Thai amano i Thai”), il partito da lui fondato, vinse le elezioni – è la chiave per comprendere l’attuale instabilità del Paese e gli scontri della primavera 2010. Ex-poliziotto, arricchitosi in seguito come imprenditore nel settore delle telecomunicazioni, Thaksin si presentava come l’uomo nuovo, estraneo all’aristocrazia militare, il capitano d’industria in grado di migliorare i destini delle classi contadine più povere delle province del nord e del nordest e di portare il paese fuori dalla grave crisi finanziaria del 1997.
In aggiunta, la politica economica thailandese era stata fino ad allora fortemente centralizzata, che dava cioè poca autonomia nelle scelte economiche alle singole realtà locali, imperniata com’era sul ruolo della capitale, e la crescita economica era avvenuta quasi esclusivamente a beneficio di Bangkok e della sua élite, creando negli anni disagi e malumori nelle campagne e nelle altre province. La politica di Thaksin, condita da una forte dose di populismo ma che comprendeva anche alcune misure concrete a sostegno dello Stato sociale, come ad esempio un’assicurazione sanitaria accessibile a tutti e prestiti per lo sviluppo ai vari tambon (le singole municipalità), seppe far leva – grazie a un’attenta analisi della situazione interna al Paese, e a un’astuta campagna elettorale, condotta più con tecniche di marketing commerciale che su base politica – sui problemi delle realtà locali, dei contadini e dei cittadini comuni, che costituivano la maggioranza della popolazione e la base del suo elettorato. il Thai Rak Thai vinse così le elezioni e Thaksin divenne Primo Ministro, ottenendo due mandati consecutivi nel 2001 e ancora nel 2005.
L’ascesa politica di Thaksin, però, oltre a rappresentare una sfida allo status quo e alla potente élite cittadina di Bangkok – dall’aristocrazia militare, minacciata nella sua natura dal forte prestigio del Premier, fino alla classe media sino-thailandese, preoccupata dalla crescente pressione fiscale causata dall’aumento di servizi sociali – suscitava non pochi dubbi circa un evidente conflitto di interessi tra le sue attività di uomo di affari e le sue funzioni pubbliche.
I suoi avversari lo accusarono presto di nepotismo e abuso di potere, e alcuni episodi quali la vendita esentasse della Shin Corporation a un fondo sovrano di Singapore o l’annuncio di voler acquistare la squadra di calcio del Liverpool, contribuirono presto al montare di un vivace movimento anti-Thaksin. Cavalcando l’onda delle proteste organizzate del nuovo partito Allenza Popolare per la Democrazia (People’s Alliance for Democracy, PAD), e con il beneplacito del re, l’esercito si impose nel settembre 2006 con un colpo di mano militare, approfittando della momentanea assenza di Thaksin – impegnato a New York con il vertice dell’Assemblea Generale dell’Onu – per porre fine al governo di Thaksin e mettere fuori legge il Thai Rak Thai. Significativamente, i militari giustificarono il colpo di stato, oltre che al fine di restaurare la sicurezza nazionale, anche e soprattutto in difesa della monarchia.
Del resto, i documenti della diplomazia americana, resi pubblici da Wikileaks, sembrano confermare il determinante ruolo avuto dalla corona nella deposizione di Thaksin, la cui popolarità e la cui politica populista, agli occhi dello stesso re, avrebbero potuto rappresentare nel lungo periodo una minaccia alla stessa legittimità dell’istituzione monarchica.
Alle successive elezioni del 2007, tuttavia, una nuova forza politica sorta dalle ceneri del Thai Rak Thai, il Palang Prachachon (il Partito del Potere Popolare), vinse confermando il sostegno popolare all’ex-Premier. Ma nuove proteste delle cosiddette yellow shirts (così chiamate per il colore delle magliette indossate durante le proteste, il giallo, simbolo tra l’altro della Casa Reale) organizzate dal PAD nell’ottobre del 2008, portarono alle dimissioni del Governo e, accusato di abuso di potere e condannato a due anni di carcere, all’esilio definitivo di Thaksin e alla confisca di 1,4 miliardi di dollari di beni dell’ex-Primo Ministro.
Verso la fine delle violenze e un consolidamento della democrazia?
Da allora, nonostante l’esilio forzato a Dubai, Thaksin ha continuato a essere la spina nel fianco del nuovo governo, guidato dal leader del PAD Abhisit Vejjajiva, con azioni provocatorie quali l’accettazione dell’incarico di consigliere speciale presso il Governo cambogiano (con cui la Thailandia ha uno spinoso contenzioso territoriale tuttora aperto) e il sostegno in patria di manifestazioni in suo favore. L’UDD è il risultato dell’unione delle varie formazione politiche che sostengono Thaksin e che si oppongono al colpo di stato del 2006.
Negli ultimi due anni, i suoi leader hanno promosso varie manifestazioni anti-governative, facendo della maglia rossa il loro simbolo (da cui il nome di red shirts, in contrapposizione alle già citate yellow shirts), che hanno contribuito a rendere ancora più instabile la situazione politica thailandese. Nel marzo 2009, le red shirts hanno invaso la sede in cui si teneva quell’anno il vertice ASEAN, creando notevole imbarazzo al governo di Bangkok.
Nel periodo di marzo-maggio 2010, nuove manifestazioni si sono presto tramutate in violenti scontri con la polizia, che hanno causato la morte di 91 persone solo tra i manifestanti e diverse migliaia di feriti. Il giro di vite del governo in risposta alle proteste, che ha portato all’arresto di centinaia di persone, tra cui tutti i leader del movimento, ha temporaneamente inflitto un duro colpo all’UDD, che sembra però oggi, sotto una nuova leadership, in grado di riprendere le proprie attività. Il governo, che ha ormai revocato lo stato di emergenza, si mostra però deciso a non cedere terreno alle red shirts, nel caso in cui le manifestazioni sfocino in episodi di violenza, anche se si è detto pronto a tollerarne lo svolgimento se condotte in maniera pacifica.
Sembrano intravedersi segnali positivi verso un possibile risanamento delle fratture nazionali, ma la tensione politica resta alta e rimangono alcuni importanti interrogativi. In particolare, c’è da chiedersi quale sarà la prossima mossa di Thaksin, all’indomani della presa di distanza di Thida dal leader in esilio, e fino a che punto quest’ultima riuscirà a esercitare il controllo sulle attività e le finalità del movimento. Durante la manifestazione del 10 gennaio, Thaksin ha parlato telefonicamente alla folla riunita affermando che farà “tutto quello che sarà in suo potere per riportare benessere, giustizia e democrazia” in Thailandia, e c’è quindi da aspettarsi che egli non rinuncerà facilmente a un ruolo di attore determinante nel futuro del paese. In secondo luogo, la maggioranza numerica dei sostenitori delle red shirts e il largo consenso popolare ancora detenuto dall’ex-premier rendono certo il fatto che, qualora si svolgessero regolari elezioni nei prossimi sei mesi – come annunciato all’inizio del 2011, nelle intenzioni del Primo Ministro Abhisit – difficilmente il PAD riuscirà a battere la coalizione guidata dal Pheu Thai, il partito che raccoglie l’eredità del Thai Rak Thai e del Palang Prachachon.
Il Governo guidato da Abhisit, nonostante il tentativo di emulare il populismo dell’ex-Premier con la promessa fatta il 10 gennaio, lo stesso giorno della manifestazione, di “9 doni di capodanno per la Thailandia” (un progetto di welfare giudicato però dai più mera propaganda), rimane del resto debole e poco rappresentativo. La conservazione di una democrazia parlamentare richiederà necessariamente un nuovo confronto con la questione Thaksin e con i problemi sociali emersi nell’ultimo decennio, pena una interruzione nel cammino verso una democrazia compiuta.