19 Aprile 2024

Sfollati e affamati, sintesi delle crisi socioambientali nel mondo

Guerre e violenze, disastri climatici ed eventi meteorologici estremi, shock economici. La pandemia da Covid-19 a far precipitare le cose. È spesso in aree e su popolazioni già in crisi che si abbatte la tempesta perfetta. Ne resta un pianeta agonizzante di sfollati e di affamati.

Devo avvertirvi che siamo di nuovo sull’orlo del baratro. [..] Le proiezioni del World Food Programme (WFP) per il 2021 sono davvero scioccanti“, denunciava al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, lo scorso marzo, David Beasley, direttore esecutivo WFP. Interveniva, in occasione della sessione sulla sicurezza alimentare e il mantenimento della pace e della stabilità internazionale, a commento del drammatico allarme lanciato dal nuovo rapporto “Hunger Hotspots: FAO-WFP early warnings on acute food insecurity“.

Si tratta della lista dei 20 Paesi le cui popolazioni, nell’immediato futuro, saranno stremate dalla crescita vertiginosa della fame acuta. Senza una mobilitazione d’emergenza pari ad almeno 5,5 miliardi di dollari, da accompagnarsi a un cessate il fuoco globale e alla garanzia di rapido accesso agli aiuti salvavita per le comunità vulnerabili, le regioni più povere del mondo, già indebolite da anni di instabilità, raggiungeranno i peggiori punti critici della scala IPC (Quadro integrato di classificazione della sicurezza alimentare).

Sono 270 milioni le persone strette nella morsa della fame in tutto il mondo. Dal Sahel all’Afghanistan, fino al Venezuela, 174 milioni di loro stanno già soffrendo livelli critici di insicurezza alimentare (IPC3). Per 34 milioni è ormai emergenza (IPC4), e lo spettro della carestia si fa sempre più incombente. Yemen, Sud-Sudan, e Nigeria settentrionale sono a un passo dalla catastrofe (IPC5). Non numeri, vite che si spengono. Ogni giorno, ogni minuto.

Per Qu Dongyu, direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), “le dimensioni della sofferenza sono allarmanti. A ciascuno di noi spetta l’onere di agire immediatamente e rapidamente per salvare vite umane, tutelare i mezzi di sussistenza e impedire il peggio“.

“Banki IDP camp, Borno State, Nigeria nord-orientale”, in Utenriksdepartementet UD, UNICEF, Norway, di Andrew Esiebo, in licenza CC/ Flickr

Solo nello Yemen, straziato da una guerra ormai lunga sei anni e che il mondo sceglie ancora di ignorare, 16 milioni di anime sono a digiuno. 1,2 milioni di madri e 2,3 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni rischiano la malnutrizione acuta. 400 mila di loro, già ridotti a poco più che pelle e ossa, moriranno entro l’anno se non si interverrà immediatamente.

Si tratta di circa un bambino ogni 75 secondi. Così, mentre siamo seduti qui, ogni minuto e un quarto, un bambino muore“, ha tuonato Beasley riferendosi a quella che era già la più grave crisi umanitaria al mondo e che adesso rischia di diventare “la più grande carestia della storia moderna“.

Il Pibor occidentale, nello Stato di Jonglei, in un Sud Sudan già martoriato dai conflitti e dalle inondazioni senza precedenti degli ultimi due anni, sta morendo di una carestia probabilmente iniziata nell’ottobre dello scorso anno. Il 2021 è “l’anno della fame” per la popolazione locale: “in casi estremi, le madri stanno nutrendo i loro figli con la pelle di animali morti, o addirittura col fango“, ha riportato il direttore del Programma alimentare mondiale.

Accade sotto i nostri occhi, mentre siamo impegnati a guardare altrove. Alla crisi dei migranti che tanto fa tremare le fortezze europee, forse. Ad oggi, 80 milioni le vittime di migrazione forzata nel mondo, stima l’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR). Il dato più alto di sempre: l’uno per cento dell’umanità in fuga.

Eppure, più della metà di quanti sono costretti ad abbandonare le proprie case per via degli effetti devastanti di conflitti armati, persecuzioni, calamità, e gravi condizioni di insicurezza, non ha mai valicato i confini del proprio Paese. Sono conosciute come Internally displaced people (IDPs), e sono “le persone più vulnerabili del mondo, che spesso si trovano a vivere vicino a zone di conflitto, lottando per accedere ai loro diritti fondamentali, ai servizi essenziali e all’assistenza di cui hanno disperatamente bisogno“, per usare le parole di Gillian Triggs, Assistente Alto Commissario per la protezione UNHCR.

Vite minacciate da ogni tipo di pericolo. Per loro, nessuno status giuridico speciale, né specifiche misure di protezione. La responsabilità della loro tutela e del rispetto dei loro diritti umani in capo a Governi di Paesi che quasi mai hanno la volontà, né tantomeno la capacità, di prendersene cura. Sono gli invisibili, quelli lasciati indietro.

Quasi 51 milioni, gli “Sradicati dalla propria terra“. Per oltre 45 milioni di loro, le ragioni della fuga sono legate a guerre e violenze, e la maggior parte sta sopravvivendo a stento in quegli stessi Paesi che sembrano condannati a consumarsi per la fame nel prossimo futuro.

Tragedie che si tengono per mano, perché “lo sfollamento, una delle principali conseguenze della violenza armata, significa che le vite vengono sconvolte, i campi vengono abbandonati, e i raccolti vanno persi. E le famiglie costrette a lasciare le loro terre diventano dipendenti dall’assistenza umanitaria solo per soddisfare i loro bisogni primari“, ha chiarito Beasley.

Dal Congo alla Siria, dalla Somalia al Mozambico. Sulla lista della fame, nove dei dieci Paesi che per UNHCR sono interessati dalle peggiori crisi di sfollamento da conflitti di lungo termine, e tutte le dieci più grandi nuove emergenze.

Per quanto cerchi di spiegarvi quanto sia difficile la situazione, è molto peggio. Prima della crisi avevamo la nostra casa, mio marito aveva un lavoro. [..] Non avrei mai immaginato di trovarmi in questo stato”, così Samar, giovane mamma siriana sfollata ad Aleppo, parla della più grave crisi di profughi del pianeta.

da “The Future of Syria – Birth registration and statelessness“, in UNHCR Photo Unit, di Sebastian Rich, in licenza CC/Flickr

La Siria è una nazione al collasso: 6,7 milioni di sfollati, tra cui 2,5 milioni di bambini, oltre che altrettanti rifugiati sparsi per il mondo, sono il frutto del conflitto decennale che ha lasciato sul terreno quasi mezzo milione di morti e una crisi economica tanto grave da obbligare milioni di genitori a prendere quelle che WFP chiamadecisioni disperate per sopravvivere”. Per FAO e WFP, quasi il 60% della popolazione, più di 12 milioni di persone, sta faticando a sfamarsi; tra loro, 1,7 milioni degli sfollati baraccati nei campi sono totalmente dipendenti dall’assistenza umanitaria: “la situazione non è mai stata peggiore”, ha detto Sean O’Brien, rappresentante e direttore WFP in Siria.

Quella della Repubblica Democratica del Congo è la storia di una delle zone più logorate del mondo. Disastri naturali, crisi sanitarie, instabilità economica e politica, e, più di tutto, trent’anni di brutali guerre endemiche. Il costo umano, terribilmente alto: 5 milioni e mezzo di vite sfollate, ammassate in insediamenti sovraffollati senza sicuro accesso all’acqua, all’assistenza sanitaria e agli altri servizi di base; per oltre 27 milioni di persone, vale a dire un congolese su tre, una carenza di cibo tale da farne la più grande emergenza fame del mondo.

Soprattutto nelle province orientali segnate dalle violenze, riferiscono le agenzie, la situazione è disperata: “dietro i numeri, ci sono storie di genitori a cui è stato negato l’accesso alle terre di loro proprietà o che sono stati costretti a scappare per mettersi in salvo, testimoni forzati del deperimento fisico dei propri figli dovuto alla fame”, case bruciate e raccolti depredati è ciò che gli resta, taro e foglie di manioca bollite in acqua ciò di cui sopravvivono.

Stando all’ultimo rapporto sul Paese diffuso dal Fondo ONU per l’infanzia (UNICEF), la malnutrizione è una delle principali minacce per i bambini congolesi, “soprattutto tra gli sfollati”: 3,3 milioni di quanti non hanno ancora compiuto cinque anni ne sono già gravemente colpiti, a migliaia non ce la faranno senza un intervento umanitario tempestivo e consistente. “I bambini sfollati (se ne contano ormai più di 3 milioni) non conoscono altro che paura, povertà e violenza. Generazione dopo generazione, si pensa solo a sopravvivere”, ha dichiarato al proposito Edouard Beigbeder, rappresentante UNICEF nella regione.

Gli sfollati della provincia di Cabo Delgado, nel Nord-Est del Mozambico, erano 70 mila l’anno scorso, sono 700 mila adesso, saranno un milione entro giugno. La metà sono bambini, troppo spesso soli. Triggs la descrive come “una vera tragedia umanitaria. Un disastro che porta tutti i tipi di bisogni di protezione”. Si fugge dalle violenze di un gruppo armato “misterioso” che ad ogni suo passaggio, dal 2017, si lascia dietro lunghe scie di morti, torturati, e stuprate, mentre cicloni, inondazioni e ricorrenti epidemie di malattie trasmesse dall’acqua imperversano sul territorio.

Tutto quello che avevo, l’ho perso”, si dispera Herculano, scampato con la sua famiglia al saccheggio del suo villaggio, a Quissanga. La crisi sta ormai precipitando: in assenza di aiuti, solo nell’area di Cabo Delgado, prevedono le organizzazioni umanitarie, in 769 mila saranno divorati dalla fame per settembre.

“Nuovi sfollati nel Darfur”,  in UNAMID, di Albert González Farran, in licenza CC/Flickr

Un pianeta di sfollati e di affamati, dicevamo. Certo, “i cambiamenti climatici e la pandemia da Covid-19 hanno messo benzina sul fuoco”, come spiegato da Antonio Guterres, Segretario generale ONU, all’incontro tenutosi in videoconferenza con i membri del Consiglio di sicurezza. Ma prima di ogni cosa, sono bombe e proiettili ad appiccarlo, quel fuoco. E allora il mondo brucia.

Dalla violenza, deterioramento economico, destabilizzazione, migrazione di massa, fame. E poi daccapo, finché l’umanità non sarà ridotta in cenere.

Perché “il conflitto guida la fame, e quando questo si trasforma in carestia, questa poi guida il conflitto. [..] Se non sfamiamo le persone, alimentiamo il conflitto”, per riprendere ancora le parole scelte da Guterres per chiedere che siano nell’immediato stanziati i fondi indispensabili per evitare che la catastrofe annunciata si faccia realtà, ma soprattutto che gli Stati facciano della soluzione politica dei conflitti “una priorità chiave della politica estera”, perché è da lì che passa la strada per porre fine al calvario di milioni di vite.

I costi della violenza sono immensi: solo nel 2019, 14,5 mila miliardi di dollari – il 15% del PIL globale. Basterebbe una frazione di questo denaro per finanziare i programmi di sviluppo che potrebbero trasformare la vita delle persone nelle nazioni fragili e sfregiate dai conflitti, e contribuire a costruire nuovi percorsi verso la pace”, ha sottolineato Beasley.

Intanto, ogni giorno, milioni di famiglie sono costrette a scegliere quale figlio vive e quale muore, e schiere di popoli continuano a camminare sul ciglio del precipizio.

Clara Geraci

Siciliana, classe 1993. Laureata in Giurisprudenza, ha recentemente conseguito il Diploma LL.M. in Transnational Crime and Justice all’Istituto di Ricerca delle Nazioni Unite. Si occupa di diritto internazionale, diritti umani, e migrazioni. Riassume le ragioni del suo impegno richiamando Angela Davis: “Devi comportarti come se fosse possibile cambiare radicalmente il mondo, e devi farlo costantemente”.

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