29 Marzo 2024

Torna alla luce la storia sommersa della tratta degli schiavi

La storia della tratta degli schiavi, quella sommersa sul fondo dell’Oceano Atlantico, ha ancora molto da raccontare. Da qualche tempo è esploso l’interesse al ritrovamento e al recupero delle navi negriere affondate al largo delle coste africane con il loro carico di merci – comprese quelle umane – mentre erano dirette nelle Americhe. Tre secoli è durato quello che può essere definito un genocidio sistematico, comunque un commercio tanto vergognoso quanto lucroso.

La prima di una serie di scoperte che possono riaprire lo studio e la riflessione sulla schiavitù è stata, nel 2015, la São José-Paquete de Africa, nave che apparteneva al Regno del Portogallo e affondò al largo di Cape Town in Sud Africa nel 1794. Almeno 200, dei 400 o 500 uomini in catene che erano a bordo, morirono. Oggi alcuni resti del ritrovamento si trovano all’Iziko Museums del Sud Africa, altri saranno destinati al National Museum of African American History and Culture a Washington, la cui apertura è prevista per il 24 settembre prossimo. Il ritrovamento rientra in un progetto più ampio – Slave Wrecks Project – che oltre al Sud Africa e al Nord America interessa anche altri Paesi: Mozambico, Senegal, Cuba, Brasile.

La nave portoghese potrebbe essere solo la prima, appunto. Se altre ricerche solleciteranno interesse e, soprattutto, l’accesso a fondi che, per la natura stessa dei progetti, sono di certo cospicui.

Operazioni di recupero della São José-Paquete de Africa, immagine Wikipedia di pubblico dominio.
Operazioni di recupero della São José-Paquete de Africa, immagine Wikipedia di pubblico dominio.

Intanto, qualcosa si muove anche in Senegal grazie alla passione di un archeologo del posto, Ibrahima Thiaw. In un’intervista al The Washington Post Thiaw spiega perché e come da giovane proveniente da un’area rurale del Paese è riuscito a laurearsi, ottenere un dottorato all’Università di Houston e cominciare la formazione in archeologia, immersione e ritrovamenti di resti di imbarcazioni usate per la tratta sul fondo dell’Oceano, ad alcuni studenti dell’Università di Dakar. Lo scopo: portare alla luce quelle navi affondate al largo del suo Paese. Molte delle ricerche compiute dall’archeologo senegalese sono state svolte sull’isola di Goree, al largo del Senegal, isola tristemente nota per il passaggio degli schiavi diretti dall’altra parte del mondo e la cui odissea è raccontata alla Maison des Esclaves, costruita nel 1776 dagli olandesi e oggi patrimonio dell’UNESCO.

Ma in realtà l’intera costa dell’Africa Occidentale è disseminata di forti e luoghi che erano destinati al commercio di esseri umani.

Si calcolano 12,5 milioni di persone strappate alla loro terre e alle loro case per diventare manodopera sfruttata fino alla morte nelle piantagioni di cotone, riso, zucchero e tabacco delle Americhe e dei Caraibi. Alle marce forzate attraverso i territori interni, prima di arrivare sulle coste per gli imbarchi, ne sopravvissero 10,7 milioni. Gli altri morirono marciando, di botte, di stenti o sommersi dall’Oceano.

Si tratta di stime ufficiali ma – per loro natura – approssimative. In ogni caso insopportabili… Secondo i documenti d’archivio sarebbero state più di 1.000 le navi negriere affondate nel corso dei secoli di tratta. Un “patrimonio” di storia e dolore.

Ricordarlo e parlarne non è semplice, soprattutto in Africa. La gente preferisce dimenticare o – almeno – dimenticare la parte più difficile con cui dover fare i conti: quella che a favorire in qualche modo la schiavitù e il commercio di uomini furono anche molti leader e chief locali che – in cambio di potere, soldi e merci varie, comprese armi – alimentarono e sostennero la tratta.

Fortino a Bunce Island, Sierra Leone, acquarello del 1850 ca., immagine tratta da UnderstandingSlavery.com
Fortino a Bunce Island, Sierra Leone, acquarello del 1850 ca., immagine tratta da UnderstandingSlavery.com

Riportare alla luce i relitti – ha spiegato Thiaw – vuol dire non solo rispolverare la storia, ma anche ricordare che “lo schiavo era la vittima“. Strano doverlo affermare, ma non in una società – come ad esempio quella senegalese – dove discendere da uno schiavo è nel tempo diventato motivo di stigma e di vergogna. Tanto è vero che – come si ricorda nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense –  durante la campagna elettorale del 2012, il presidente sconfitto aveva accusato il suo rivale (e attuale presidente Macky Sall) di essere un discendente di schiavi. “Accusa” che l’attuale presidente si affrettò a smentire in tutti i modi per poter riacquistare la fiducia degli elettori.

Il complesso della vittima, del perdente, dell’africano sottoposto al giogo dell’uomo bianco, rimangono concetti e sentimenti ancora oggi difficili da superare. Nonostante siano passati secoli, nonostante l’indipendenza, nonostante la libertà. Nonostante la Storia. Andare a “scavare” ancora in questa storia può essere d’aiuto. Soprattutto alle giovani generazioni. E se – questa parte terribile della Storia d’Africa e dell’uomo – trovasse maggiore spazio tra le materie scolastiche. Soprattutto nelle aule del Continente nero.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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