28 Marzo 2024

“Eco de femmes”, l’emancipazione che passa dal lavoro

“Il diritto a guadagnarsi da vivere – sosteneva Virginia Woolf in “Le tre ghinee” le donne non se lo faranno portare via”, riconoscendo in esso la prima e autentica forma di emancipazione da una società patriarcale spersonalizzante.

Lo stesso diritto, difeso nel lontano 1938, è rivendicato oggi dalle donne che popolano l’area tra il Marocco e la Tunisia, terre del Maghreb africano: per ognuna di loro, la Primavera Araba non ha prodotto quei cambiamenti, quell’uguaglianza di diritti, quella riconquista della libertà individuale e quella ridistribuzione equa di risorse in nome delle quali tante proteste sono scoppiate tra focolai vorticosi e lotte cruente.

Le donne che vivono nelle aree rurali del Maghreb costituiscono oltre il 15% della popolazione femminile e rappresentano tra il 70% e il 90% della manodopera in agricoltura. Quasi tutto il lavoro agricolo è frutto della loro fatica, eppure, la ricchezza va alle donne con percentuali invertite.

Dieci ore al giorno è l’orario medio di lavoro per le donne “fortunate” che trovano occupazione nelle aree rurali: lo stipendio ammonta a tre/quattro euro al giorno, ossia, da due a quattro volte meno degli uomini; la percentuale di analfabete tra le donne rurali si aggira intorno al 40-46%. Tale rapporto economia-lavoro è un chiaro esempio di violenza che si connota di una dimensione prettamente sociale.

Eppure, in ognuna di queste donne, c’è una consapevolezza che lascia senza fiato: la convinzione che per uscire da questa condizione di asservimento e sfruttamento, ci sia bisogno di istruzione, e di formazione.

 

 

Il Progetto “Eco de Femmes”

Il Progetto “Eco de Femmes“, avviato nel dicembre 2012 in Tunisia e Marocco, ha lo scopo di contribuire all’emancipazione delle donne nei contesti rurali attraverso il miglioramento della loro condizione sociale e economica, garantendo che la ricchezza da esse prodotta finisca nelle loro mani.

L’intervento condotto in contemporanea in Tunisia e in Marocco pone l’accento sull’importanza dell’economia sociale come strumento efficace nella lotta alla povertà.

La partecipazione delle donne rurali alla vita sociale ed economica del Paese è un punto cardine del progetto, che si prefigge anche di promuovere la parità nell’accesso e nel controllo delle risorse economiche, facilitando la diffusione e lo scambio di buone pratiche nel bacino del Mediterraneo. Fondamentale per la realizzazione di questo obiettivo risulta la creazione di una rete commerciale dinamica e strutturata di prodotti agroalimentari equo-solidali, la promozione della parità uomo-donna e il sostegno allo start up di cooperative rurali femminili.

Il documentario “Eco de Femmes” 

Stefania Piccinelli,  Carlotta Piccini e Alessandra Cesari, hanno realizzato “Eco de Femmes”. Il documentario segue l’omonimo progetto promosso da GVC Onlus ed è stato  finanziato dall’Unione Europea e dalla Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con il Comitato Europeo per la Formazione e l’Agricoltura Onlus (CEFA), le Réseau Tunisien de l’Economie Sociale (RTES) e le Réseau Marocain de l’Economie Sociale et Solidaire (REMESS).  “Eco de Femmes” è stato realizzato grazie alla collaborazione di EleNfant, associazione di autori, registi, filmmakers e produttori indipendenti e inserito nella Rassegna Terra di tutti i film Festival” Documentari e Cinema Sociale del Sud del Mondo: lavorare con le donne.

Il documentario ritrae la vita, il lavoro e le speranze di sei donne che abitano nelle zone rurali tra il Marocco e la Tunisia: “Lo sforzo, spiega  Stefania Piccinelli, coordinatrice per l’educazione allo sviluppo di GVC –  è incentivare le donne a cooperare creando reti virtuose che portino dignità e sogni. Ci siamo chieste come riuscire a comunicare sulla povertà e sull’ingiustizia, restituendo la complessità dei contesti politici sociali ed economici. Il cinema ci è sembrato uno strumento di comunicazione efficace, capace di comprendere la democratizzazione dell’immaginario e di riportare gli sguardi di chi vive le storie rappresentate, secondo vari punti di vista. I problemi strutturali della Tunisia, purtroppo, permangono: le donne sono sfruttate come braccianti agricole da privati e piccole società, ne sono consapevoli, e per questo chiedono con forza formazione per sviluppare i loro progetti di start up, e per acquisire gli strumenti che consentano il ritorno della ricchezza prodotta nelle loro mani“.

La storia di Zina, una tra le sei protagoniste del documentario, rappresenta con esattezza questo desiderio di emancipazione, la cui chiave di volta si identifica con l’istruzione, che racchiude la certezza di mutamento di un sistema sociale millenario: sentimento, emotività, istinto, cuore e pancia sono tratti distintivi delle donne ritratte in questo spaccato maghrebino.

“C’è un gap enorme – continua Stefania Piccinelli – tra la costa e l’interno dei Paesi, a seguito della migrazione degli uomini verso le zone costiere; ciò ha portato alla femminilizzazione delle campagne. Tuttavia, le terre continuano a rimanere di proprietà degli uomini, e l’unico modo per difendere ciò che con tanta fatica le donne producono, è creare una modalità alternativa a tale forma di sfruttamento, incentivando la creazione di cooperative femminili, progettando un tempo dedicato alla formazione, che sappia fornire gli strumenti necessari per gestire le attività di produzione e promuovere l’auto-imprenditoria come scelta alternativa allo sfruttamento. L’esperienza della ‘rete’ consente alle donne di uscire dalla condizione di isolamento, facendo leva sul senso di solidarietà e condivisione“.

Zina, sguardo profondo e fermo, quasi “buca” l’obiettivo trascinando lo spettatore nella storia, inondandolo del suo vissuto in modo netto e totale. È una donna giovane, Zina, di origine tunisina, ha 38 anni, ancora nubile, quasi analfabeta, vive nell’area di Kasserine, nell’Elwassaiya, vicino al confine con l’Algeria, una “terra di nessuno”, zona di transizione in cui regna il contrabbando di merci tra la Libia e l’Algeria. Per le tradizioni locali essere una donna nubile rappresenta una condizione particolare, ma prima di sposarsi Zina vuole ottenere l’indipendenza economica. La sua specialità è la trasformazione dell’alfa, erba spontanea con la quale lei e altre donne creano prodotti artigianali, come cesti e tappeti. Questi prodotti vengono poi venduti a caro prezzo nelle fiere e nei mercati dagli uomini che  sapientemente sfruttano il lavoro delle donne. Alle donne non è permesso di vendere direttamente ciò che producono, “ufficialmente” perché non hanno un mezzo di trasporto, ma la realtà è la negazione del diritto di viaggiare sole, le donne devono essere accompagnate sempre da un uomo.

La storia di Zina, protagonista principale e narratrice dell’intera storia, è il fil rouge che lega tutte le vicende narrate. Nonostante sia analfabeta, Zina è pienamente cosciente della condizione di estremo sfruttamento subita dalle donne che vivono e lavorano nelle zone rurali. La sua personalità dura e obiettiva, le consente di osservare in modo lucido i cambiamenti che le donne rurali stanno affrontando per emanciparsi dall’attuale condizione di marginalità economica e sociale.

“La condizione delle donne è grave, ma non possiamo incrociare le braccia”, dice Zina, e allora, libertà e autoconsapevolezza divengono elementi “a servizio” delle donne, a partire dal proprio corpo e passando per la mente, lasciando fluire idee che sanno plasmare i sogni, in quello spazio dell’orizzonte dove il sole si infuoca di rosso e irradia di riflesso la terra brulla e compatta: è proprio lì, che gruppi di donne decidono di percorrere una strada nuova, dove l’eco-nomia diventa eco di vite che si intrecciano e si raccontano, narrando di vissuti che si tingono di personale e universale insieme, mentre trasformano bisogni insoddisfatti in forza, coraggio di esplorazione e autodeterminazione.

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