16 Aprile 2024

Quando la giustizia sociale passa dai racconti personali

[Traduzione a cura di Benedetta Monti e Giorgio Guzzetta dall’articolo originale di Joanna Wheeler pubblicato su openDemocracy]

Quando le persone guardano ai problemi politici attraverso le proprie esperienze personali, le vedono in modo diverso: la democrazia non è più una cosa astratta, ma è “la mia democrazia”. Il potenziale trasformativo del raccontare è tessuto nella trama delle nostre vite.

Papà, credi che loro siano migliori di noi? La mia risposta è stata che non esiste un ‘loro’ così come non esiste un ‘noi’, non in questo senso.

Le persone di un altro Paese non sono migliori di noi, ma sono il sistema in cui vivono e lavorano, la nazione che hanno costruito negli anni, nei decenni e perfino nei secoli, ad essere migliori del nostro. Non si tratta di genetica, ma del lavoro che è svolto per creare un sistema, da chiunque e ad ogni livello. (Zoran Petrović)

Ogni comunità possiede le proprie tradizioni narrative, dagli anziani seduti attorno a un fuoco alle ultime storie che appaiono sui social media. Tutti i giorni ascoltiamo storie e le raccontiamo: agli amici, ai partner, ai figli e ai nipoti. Le storie sono ovunque, ed è chiaro che sono utilizzate per dare un significato e per comunicare con gli altri, ma in che modo le storie contribuiscono  alla trasformazione personale e politica, alla democrazia e alla giustizia sociale?

La storia di Zoran viene dalla Bosnia Erzegovina, luogo in cui ho aiutato a condurre un processo collaborativo con gruppi civili e dipendenti governativi nel 2003 come istruttore, facilitatore e ricercatore. Il mio ruolo era quello di supportare un procedimento che utilizzava la tecnologia per aiutare le persone a raccontare storie sulle loro esperienze con il governo locale. Chiamavamo questo procedimento ‘impegno civile creativo’ attraverso la narrazione di storie.

Le storie possono portare una trasformazione sia a chi le racconta sia al pubblico che le ascolta. Il punto di forza di questo tipo di approccio si trova nella sua struttura profondamente femminista: ciò che è personale è anche politico, e le storie possono mostrarci questo collegamento.

La storia di Zoran, per esempio, si muove tra la sua ‘mentalità coloniale’ e la mancanza di leader affidabili nel sistema politico del suo Paese:

Ricordo la prima volta che ho sentito il termine ‘mentalità coloniale’. Avevo 22 anni, lavoravo per le Nazioni Unite nella mia città, Doboj, e ho sentito una discussione tra due colleghi. Uno di loro affermava che le persone del loro Paese non erano in grado di governarsi da sole, e che sarebbero state meglio con il ritorno dei colonizzatori. L’altro non era d’accordo.
Guardando oggi la mia nazione, 15 anni dopo, vedo una nazione meravigliosa. A volte però ho la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato in noi, nella popolazione della Bosnia Erzegovina, non siamo in grado di trovare politici che ci guidino in modo giusto, e non possiamo cambiare niente: siamo una colonia. Questa sensazione poi scompare, e vedo questa disperazione come un modo di dare la colpa della nostra situazione a qualcun altro .

Il procedimento di raccontare la propria storia personale spesso è un procedimento difficile. Ha muri da cui non puoi vedere al di là, e la conclusione può sorprenderti. In un processo di narrazione come questo, la creatività, il movimento, la trama e le espressioni sono utilizzate per alterare modi di pensare e di parlare ben stabiliti – per scuotere le persone e vedere che cosa accade quando tutto torna come prima.

Le persone spesso finiscono per raccontare una storia che non si aspettavano e nel processo di narrazione creano e condividono una luce nel buio – una briciola di verità che esiste all’interno della loro esperienza.

Chi narra storie combina insieme immagini, suoni e racconti usando strumenti digitali. Significativamente, è il narratore che decide come la sua storia verrà usata e dove sarà raccontata.

Raccontare una storia in un ambiente sicuro può essere catartico, può farti scoprire cose meravigliose, può guarirti spiritualmente e ti può dare coraggio. Ma può anche essere disturbante, doloroso, sconvolgente. La creazione e condivisione collettiva di storie diventa un calderone che aiuta a superare i conflitti emotivi.

La storia di Darjian Bilić ne è un ottimo esempio:

Prima ero una persona diversa. Mi svegliavo la mattina e non avevo uno scopo, prendevo il caffè e poi andavo a lavorare, meccanicamente, in silenzio, evitando di leggere le notizie, tenendomi lontano dalla verità, e mi giustificavo dicendo che almeno volevo continuare ad essere normale. Come se potessi tenere aperto un ombrello grande abbastanza da permettermi di nascondermi, sperando che non fossi io quello che veniva… accoltellato, rapinato, picchiato, sparato…
Il cambiamento, devo ammettere, non è avvenuto all’improvviso, dal giorno alla notte, ma adesso so che oggi sono una persona migliore e mi sento molto meglio. Ho smesso di tenermi le cose dentro, non resto in silenzio di fronte alle ingiustizie e alle menzogne; adesso protesto a voce alta e fermamente di fronte ai problemi che vedo intorno a me; ho smesso di accusare gli altri per le mie condizioni fisiche e spirituali; ho cominciato a considerarmi responsabile delle mie azioni; son diventato un cittadino con diritti, obblighi e responsabilità individuali, nel vero senso del termine.  
Quando qualcuno mi chiede come e dove questo sia avvenuto… gli rispondo che è cominciato tutto nella mia testa. Sono diventato io il cambiamento che volevo vedere fuori di me.”

Storie individuali come questa creano dei legami personali tra persone diverse. Chi ascolta può reagire empaticamente perché il narratore condivide le sue emozioni. Quando poi affrontano temi come la giustizia, l’esclusione, la democrazia, i diritti umani, si comprendono cose in maniera molto più chiara e più forte di quando le stesse questioni sono trattate in maniera astratta. Il lettore percepisce le molteplici dimensioni del problema attraverso la testa e il cuore di un’altra persona, mettendosi, anche solo per un breve momento, al loro posto. La creatività del racconto può illuminare verità democratiche più profonde.
Questo può essere particolarmente utile nello sviluppo di politiche in cui chi prende le decisioni e stabilisce le linee-guida è lontano dalle realtà che affronta, e quando i punti di vista delle persone direttamente coinvolte si perdono nel mare di parole, più o meno burocratiche, che annebbiano e annacquano le discussioni. Le storie non offrono risposte, ma invitano i lettori a trovare le proprie, a dare senso alle questioni. Questo è il loro potere.
La democrazia e la giustizia sociale non significano nulla se non sono costruzioni e realizzazioni collettive. Ma come si realizzano queste connessioni tra le storie personali e le narrazioni sociali condivise?

La sensazione di essere tenuto in considerazione e il senso di responsabilizzazione hanno un ruolo importante nella creazione di un cittadino capace di curare i suoi interessi. La narrazione, individualmente, può aiutare a sviluppare questa capacità. Ma per passare a narrazioni condivise occorre qualcosa di più: un modo di collegare le storie personali a questioni collettive, che non possono non essere che politiche, dal momento che devono confrontarsi con relazioni di potere.
Le persone con cui ho lavorato in Bosnia ed Erzegovina l’hanno fatto analizzando i rapporti di potere all’interno delle storie e utilizzando i risultati per selezionare possibili temi per narrazioni collettive sul futuro della democrazia nei loro paesi. Ho lavorato con un gruppo che usava video digitali e il montaggio digitale per creare queste storie. I partecipanti hanno girato brevi film insieme (come questo e questo), che puntavano a generare un dialogo e un dibattito sulla democrazia in un contesto in cui fin’ora erano assenti. Hanno usato la crescente fiducia in se stessi e ciò che hanno appreso dalle loro storie come base per raccontare una storia condivisa che aveva per oggetto quelle autorità che rivestono posizioni di potere.
Quando le persone guardano ai problemi politici attraverso le proprie esperienze personali, le vedono in modo diverso: la democrazia non è più una cosa astratta, ma è “la mia democrazia” – “quello che significa per me, nella mia vita, e nelle vite delle persone che mi stanno intorno.

La storia di  Danjiel lo fa capire chiaramente:

Sono un attivista per i diritti gay e faccio parte dell’associazione “Queer Montenegro”.
Abbiamo lanciato l’iniziativa di proporre e adottare iniziative legali che avrebbero portato al riconoscimento delle famiglie omosessuali in Montenegro, dando inizio alla lotta per i diritti che non ho, per la famiglia che non ho.
Dopo aver rivelato ai miei amici di essere gay, l’ho detto anche a mia madre, cosa che ha causato la prima seria incrinatura nel nostro rapporto. Dopo gli insulti quotidiani mi ha assalito fisicamente un paio di volte. Invece del sostegno che mi aspettavo, la reazione è stata di totale rifiuto. Dopo un paio d’anni di vita insieme, un giorno ho deciso di andare via e iniziare una nuova vita.
Tutti abbiamo bisogno di un posto in cui vivere e tornare ogni sera e dove qualcuno che ci ama ci aspetta. Adesso ho una nuova famiglia che mi sono scelto, una famiglia fatta da tutti i i miei amici e dall’uomo che amo, che sta con me in ogni momento ed è sempre pronto a sostenermi e a darmi conforto per l’ansia causata dal mio lavoro. Grazie! Questa è la famiglia per cui devo lottare.

Le storie non sempre danno risposte, ma quello che si realizza raccontandole è importante per la giustizia sociale e la democrazia. Ci fanno interagire con i problemi e tra di noi grazie al potere del raccontare e all’empatia che viene generata.
Usare le storie per promuovere il senso di responsabilità e la giustizia sociale, ma il potere trasformativo del raccontare è tessuto nella trama delle nostre vite.

Benedetta Monti

Traduttrice freelance dal 2008 (dall'inglese e dal tedesco) soprattutto di testi legali, ama mettere a disposizione le sue competenze anche per fini umanitari e traduzioni volontarie.

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