29 Marzo 2024

Sud Sudan, muore una donna incinta su sette

Questo post è stato scritto da Vittorio D’Aversa. Professionista dell’informatica, con la passione per il giornalismo, Vittorio scrive di tecnologia e informatica forense, ma è sempre più coinvolto nel giornalismo sociale. L’interesse verso i più deboli e le attività di volontariato lo spingono ad affrontare le problematiche inerenti la diffusione dei diritti umani e, in particolare, la battaglia al digital divide.

 

Sembra un paradosso, ma è la realtà.  Per le donne e le ragazze sud sudanesi, il parto e la gravidanza, piuttosto che il conflitto, sono le maggiori cause di morte. Una donna su sette muore per gravidanza o parto, spesso a causa di infezioni, emorragie, parto ostruito o per mancanza di accesso a strutture per le cure mediche. Lo rileva il rapporto del 2012 di un gruppo di esperti di Ginevra, Small Arm Survey (Sas), “La sicurezza delle donne in Sud Sudan: minacce in casa“.

In Sud Sudan non c’è niente di più rischioso per la vita di una donna che restare incinta. È ormai un dato statistico. Secondo quanto stimato dall’Unfpa, il Fondo dell’Onu per la popolazione, in Sud Sudan ci sono solo 8 ostetriche registrate e 150 levatrici nelle varie comunità. La presenza di altre levatrici potrebbe prevenire il 90% delle morti materne nei luoghi in cui venissero autorizzate a mettere in pratica le loro competenze e seguire la gravidanza, il parto e il post-parto. Persino nel reparto maternità della Clinica Universitaria di Juba, i membri del personale affermano che non ci sono medicinali sufficienti (o appropriati) né abbastanza personale preparato.

L'isolamento dei villaggi e la mancanza di mezzi e strutture mette a rischio la vita di centinaia di donne ogni anno. Foto dell'utente Flickr babasteva, pubblicata con licenza CC

Un’esperienza diretta l’abbiamo raccolta all’Ospedale di Mapuordit, dove il direttore sanitario è fratel Rosario Iannetti. Comboniano, medico e chirurgo, svolge lì la sua missione dal 2001. Grazie  al suo impegno e a quello dei suoi collaboratori l’Ospedale Mary Immaculate, aperto nel febbraio 2002 dalla Diocesi cattolica di Rumbek, presso la missione comboniana di Mapuordit, ogni anno diventa più efficiente e utile per la popolazione locale. Mapuordit  è una piccola cittadina situata a 75 km a sud-est di Rumbek, il centro più grande della regione del Lakes State (Stato dei Laghi), uno dei dieci Stati che compongo il Sud Sudan.

L’ospedale si trova sul confine tra le due tribù, Jur e  Dinka convolte da decenni in un’aspra guerra tribale. Fino ad oggi avevano nel Nord un nemico in comune, dopo il referendum la situazione è in continuo fermento.

Ogni anno, fratel Rosario lancia un appello alle varie comunità italiane ed europee con lo scopo di raccogliere fondi per avviare nuovi progetti. Lo scorso anno ha chiesto aiuto per il programma Maternità Sicura a Mapuordit e oggi ci parla della sua realizzazione.

Ci racconta di aver potuto comprare una nuova macchina/ambulanza fuoristrada e di aver dato, quindi, inizio al progetto. Grazie a questo mezzo è ora possibile andare tre volte alla settimana nei vari villaggi per esaminare le donne gravide e invitarle a partorire gratis in ospedale se sono a rischio. Il programma prevede, inoltre, di fare loro il test per l’HIV senza farle spostare dai villaggi e di fornire la terapia antiretrovirale per proteggere il feto dalla trasmissione del virus. Ovviamente, si somministrano le vaccinazioni contro il tetano e altro, sia alle mamme che ai bambini.

Di tale impegno già si vedono i primi risultati: i parti in ospedale sono aumentati dai soliti 10 a oltre 25 al mese e sono ancora in aumento. Ogni mese si effettuano circa 400 visite prenatali nei 12 centri visitati dall’ambulanza, almeno 200 donne incinte eseguono il test per l’HIV, e quelle che risultano positive ricevono la profilassi antiretrovirale per evitare la trasmissione del virus al feto.

Purtroppo ancora abbiamo un grosso limite – dice Rosario – non siamo in grado di provvedere al cibo per le donne ammesse in maternità con gravidanza a rischio. Questo comporta che spesso rimangono senza cibo e chiedono di essere dimesse prima del parto, promettendo di venire a partorire in ospedale appena hanno le prime doglie, ma quasi sempre non arrivano in tempo“.

Un esempio di ciò, è quanto accaduto di recente (ma è uno dei tanti casi analoghi): “Alle 11 mi hanno chiamato per visitare una donna  appena arrivata con l’autoambulanza del dispensario di Mvolo, dove la nostra macchina va due volte al mese. La nostra suora ostetrica aveva visitato questa mamma e scoperto che il bimbo era in posizione traversa all’ottavo mese di gravidanza, per cui l’aveva portata al nostro ospedale dove è rimasta per cinque giorni. Poi ha chiesto di essere dimessa per mancanza di cibo… Ha promesso di recarsi al dispensario di Mvolo alle prime doglie che sono cominciate alla sera. Ma nessuno dei parenti era disponibile a portarla al dispensario distante circa 15 km. Solo la mattina alle 5 si è trovata una bicicletta e con quella è stata portata al centro medico. Le doglie andavano avanti da ore e un braccio del bimbo era fuori dalla vagina. Ci sono volute altre 5 ore per trovare l’autista e il diesel per un’autoambulanza di Save the Children Fund. È lì che  la mamma ha partorito, ma purtroppo il bambino era già morto“.

Un epilogo che si poteva evitare, continua il medico comboniano: “Se la donna fosse rimasta nel nostro ospedale, il bimbo si sarebbe sicuramente salvato con un semplice taglio cesareo. Ci resta la consolazione di aver salvato la vita della mamma che a casa sarebbe potuta morire di anemia e infezioni“. Ora – conclude Rosario Iannetti – rinnoverò il mio appello perché si possa anche provvedere al cibo per le mamme ammesse per lungo tempo nel nostro reparto di maternità con una gravidanza a rischio“.

La guerra tribale sembra essere finita lo scorso settembre 2011 con la firma di un accordo di pace. I Jur ora sono tornati a farsi curare in ospedale, mentre i Dinka e altre tribù continuano a venire da tutto il Sud Sudan. La lista operatoria di attesa è di oltre due settimane, nonostante Rosario e i suoi collaboratori riescano a operare quasi trenta pazienti la settimana.

 

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