19 Aprile 2024

Le donne africane schiacciate dalla guerra

[Nota: Traduzione di Chiara Orsini dell’articolo originale di Amina Mama per openDemocracy.net]

L’anniversario delle torri gemelle ha farcito i media occidentali di replay e dettagliati “dietro le quinte” degli eventi legati agli attacchi al World Trade Center e al Pentagono. Gli analisti più critici – tra cui Noam Chomsky, Arundhati Roy e Robert Fisk – storcono il naso di fronte all’incessante ricorso occidentale alla “retorica del terrore”, la quale contempla e giustifica un’ingente spesa militare nel quadro di una guerra globale potenzialmente senza fine, sostenuta in nome di un’ottusa dottrina della sicurezza. Anche la filosofa femminista statunitense Iris Young contesta certi sviluppi allarmanti e snocciola la “logica di protezione del genere maschile” che fa tanto comodo all’impianto ideologico militarista. In che modo noi africani percepiamo questa escalation senza precedenti? In che modo la stessa sta influenzando l’Africa e le donne africane, tenuto conto degli sforzi per porre fine ai conflitti e rimettere in piedi società ed economie già tormentate da anni di conflitto e comando militare, e considerato l’impegno per gettare le basi di democrazie libere e partecipative?

Gli attivisti pacifisti sbandierano il legame tra militarismo e capitalismo dai tempi della pubblicazione (1935) del pamphlet  War is a Racket (La guerra è un’attività criminale, ndt), in cui l’autore, il pluridecorato generale militare statunitense Smedley Butler, riconosceva amaramente che la sua brillante attività militare era servita a spianare la strada all’accumulazione privata nel mondo colonizzato di Messico, Repubblica Dominicana, Cuba, Haiti, Cina e di “un’altra manciata di Repubbliche centro-americane”. Qualche anno prima di Butler, le attiviste femministe contrarie alla guerra – tra le altre, Virginia Woolf – avevano parlato di un filo rosso tra la guerra e l’onnipresenza maschile negli ambienti politico-economici. Probabilmente, la Woolf non sapeva di scrivere il saggio ‘Le tre ghinee’ negli stessi anni in cui le donne africane non vedevano tornare a casa figli, padri e mariti reclutati negli eserciti coloniali europei a combattere per i loro padroni.

Nel libro di Myron Echenberg ‘Colonial Conscripts: Les Tirailleurs Sénégalais in French West Africa’ si parla di oltre 175.000 uomini delle colonie francesi in Africa occidentale reclutati per la Prima guerra mondiale, dei quali almeno 30.000 morti in trincea. Anche durante la Seconda guerra mondiale si è registrato un numero enorme di soldati africani provenienti dall’Africa occidentale francese, 20.000 dei quali hanno preso parte allo sbarco alleato nel 1944. Gli inglesi non sono stati da meno, come conferma la memoria storica di molte comunità africane. Meno attenzione si è prestata al fatto che molti degli africani che ritornavano lo facevano indossando in qualche modo i panni militari, ovvero guardavano al futuro del continente portandosi dietro la propria formazione negli eserciti militari coloniali. Ad un esame più approfondito si nota il legame storico tra potere militare coloniale e una predisposizione post-indipendenza a colpi di Stato e guerre civili, al punto che dalla metà degli anni Settanta oltre la metà dei Paesi africani è vissuta sotto regimi militari guidati da soli uomini. Questi capi di Stato hanno rispolverato le pratiche colonialiste di sfruttamento, assecondando le società transnazionali piuttosto che le proprie popolazioni, saccheggiando risorse naturali e mettendo al riparo dall’attenzione del pubblico i guadagni accumulati con le banche occidentali.

Le guerre hanno lasciato alle donne il peso del disastro. Foto dell'utente Flickr J.P.H. rilasciata con licenza CC

Molte guerre e qualche genocidio più tardi, è in piedi la stessa triangolazione fra dominio maschile, profitti privati e potere militare su entrambe le sponde dell’Atlantico. A scontare in prima persona gli effetti di questi legami, con il venire meno dei servizi pubblici e delle reti di protezione sociale che getta sempre più famiglie nere e appartenenti a minoranze etniche in condizioni di crescente povertà, sono le donne della diaspora africana negli Stati Uniti (dove arrivano puntualmente i rifugiati vittime di conflitti post-coloniali).  I loro figli hanno prospettive limitate e molti di loro passano per il carcere o il servizio militare.

Agli inizi dello scorso luglio, mentre si era intenti a compiere la più elevata spesa militare che l’umanità ricordi, il Watson Institute della Brown University ha pubblicato un rapporto sui costi delle guerre USA in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Catherine Lutz e gli altri ricercatori hanno individuato lo stesso legame tra interessi privati e potere militare, riscontrando che:
– con il solo impegno militare in Iraq, Afghanistan e Pakistan, costato finora tra i 2,2 e 2,8 trilioni di dollari, la spesa militare statunitense ha raggiunto un picco storico;

– gran parte di questo denaro proviene da prestiti, il che incide sul debito estero e sulla crisi finanziaria statunitense;

– se da un lato la recessione ha colpito duramente il paese, le industrie militari hanno però beneficiato di molto più denaro pubblico, stipulando contratti d’appalto, nel 2008, per un valore di oltre 400 miliardi: i livelli di profitto più elevati mai raggiunti, dalla Seconda guerra mondiale in poi … La sola Lockheed Martin [nello stesso anno] ha ricevuto, per contratti d’appalto stipulati con il Pentagono, 29 miliardi di dollari.

I contratti con la Lockheed Martin hanno attratto più finanziamenti pubblici della Enviromental Protection Agency (7,5 miliardi di dollari), del Dipartimento del Lavoro (11,4 miliardi), del Dipartimento dei Trasporti (15,5 miliardi). Questa iniezione di capitale nelle casse delle industrie militari andrebbe analizzata nel più ampio quadro della crisi economica statunitense, ovvero del materializzarsi – in base a genere e razza – della possibilità di profitto per alcuni, del fantasma della povertà per altri.

Gli africani che vivono sull’altra sponda dell’Atlantico serbano ricordi differenti, che non trovano spazio nella rete CNN. Già prima dell’11 settembre il continente africano ha conosciuto gli attentati alle Ambasciate statunitensi di Dar Es Salaam e a Nairobi il 7 agosto 1998, in cui persero la vita 258 persone e oltre cinquemila rimasero ferite. Nella memoria africana è inscritta anche la rappresaglia americana del 20 agosto dello stesso anno: il lancio di missili cruise su un’industria farmaceutica, un attacco di cui il numero delle vittime resta sconosciuto. Già prima dell’11 settembre, quindi, l’Africa era stata coinvolta nell’escalation militare portata avanti dagli Stati Uniti nel rispetto esclusivo della propria sovranità nazionale.

Da allora la gestione militare in Africa è stata riformulata e segnata dal lancio, nell’ottobre 2008, dell’US High Command for Africa, [nota come] AFRICOM. L’AFRICOM nasceva per centralizzare il comando delle operazioni antiterroristiche degli Stati Uniti in Africa, per garantire il reale raggiungimento degli obiettivi di sicurezza statunitensi, incluso l’accesso alle risorse africane, in primis il petrolio. I governi africani e le società civili avevano inizialmente fatto la voce grossa al punto che la sede di AFRICOM era rimasta a Stoccarda e il Comando era stato invitato a rivedere la propria strategia di pubbliche relazioni. AFRICOM è stata rimaneggiata per assomigliare più ad un complesso di generiche “operazioni congiunte” che mirano alla formazione nell’ambito del peacekeeping e dell’assistenza umanitaria e ad esercitazioni di addestramento per le forze militari africane. Il sito web di AFRICOM pubblica immagini raffazzonate che ritraggono il personale militare statunitense intento a scavare pozzi, prestare assistenza sanitaria e parlare agli scolari.

Cosa devono fare le donne?

Se è vero che l’assistenza militare sembra destinata a rimpiazzare l’ormai desueto aiuto allo sviluppo, è doveroso chiedersi cosa significhi questo per le donne. Le donne in Africa hanno sperimentato i peggiori effetti della logica militarista in una lunga sequenza di regimi militari e conflitti che hanno distrutto vite, causato innumerevoli casi di famiglie sfollate, ridotto i mezzi di sussistenza e lasciato in eredità un senso di sconfitta, abuso, violenza e disequilibrio tra i due sessi che è tanto palese quanto indelebile. Che si parli dei cosiddetti “diamanti insanguinati” in Sierra Leone, della maledizione dell’oro nero nel Delta del Niger o del rapace accaparramento di coltan nella Repubblica Democratica del Congo, il legame tra il conflitto e l’appetito di risorse minerarie delle multinazionali è lapalissiano, così come lo sono i costi umani.

Le donne hanno sperimentato l’erosione dei livelli di sussistenza, diventati più fragili per effetto di violenza, migrazioni forzate e altre conseguenze dei conflitti, così come hanno dovuto pagare il prezzo in termini di diritti fondamentali di cittadinanza, la cui definizione (e tutela) trascende le dichiarazioni di “cessate il fuoco”.
La pace non ha prodotto il tanto atteso dividendo per le donne. Se prestiamo attenzione a quale sia l’idea di sicurezza delle donne africane, emersa dal calderone dei conflitti e dei regimi militari, noteremo che si parla tanto di sicurezza economica e di mezzi di sussistenza quanto di salvaguardia dalla violenza,di protezione all’interno delle proprie case, ma anche di salvaguardia dalle pratiche predatorie dei militari.

Le attiviste femministe che si spendono contro il conflitto e l’azione militare in Africa mettono insieme questi elementi per ripensare il significato di pace e conflitto e per migliorare la capacità delle donne di contribuire attivamente alla democratizzazione e alla giustizia sociale. Questa è l’agenda attuale di ABANTU for Development, di Mano River Women’s Peace Union, di Women’s Peace and Security Network e altri partner che collaborano alla ricerca delle attiviste “Strengthening Women’s Activism Against Conflict and Militarism” (SWACM, Rafforzare l’attivismo delle donne contro conflitto e potere militare, ndt), lanciata in Liberia, Sierra Leone, Ghana e nel Delta del Niger un anno fa. Si tratta di un’agenda proposta da donne africane, ispirata al nostro essere sopravvissute a decenni di conflitto e governo militare e all’esperienza di impegno per la pace e l’uguaglianza.

Se la guerra americana al terrorismo è la “madre di tutte le guerre”, i conflitti in Africa sono i suoi figli arrabbiati e ribelli, anch’essi irrispettosi dei confini nazionali e pronti a stabilire connessioni con la speculazione privata. Il conflitto visibile è solo la punta dell’iceberg di contraddizioni più profonde, è il ritratto di una politica che, soggetta a una logica militare, langue. Le radici di questo fenomeno affondano in reti complesse di disagio culturale, di malessere politico ed economico: il militarismo non deve far pensare solo a uomini che imbracciano fucili, o a un contesto di guerra o alla violenza ereditata dal passato. La logica militare impone un futuro ordine delle cose che obbedisce ai dettami economici, trascurando lo sviluppo e la giustizia sociale e riproducendo le diseguaglianze di genere su cui il militarismo poggia e che al tempo stesso perpetua.

Le donne africane, dunque, hanno di che riflettere: tutto questo ci spiega perché dovrebbero prendere parte al movimento transnazionale che mira a disfarsi della logica militare. Sia che si osservino gli effetti diretti che conflitto e potere militare hanno sulle donne, sia che si discuta dei risvolti economici che la guerra al terrorismo degli Stati Uniti presenta su scala globale, la logica militare minaccia di privare le donne, ancora una volta, dei diritti conquistati nel secolo scorso. Le donne africane hanno valide ragioni per riprendere la lotta in nome di prospettive pacifiche e radicalmente nuove che contemplino, in ultima analisi, considerazioni di giustizia sociale e che vedano scritto a chiare lettere che la sicurezza non può essere costruita senza donne, senza giustizia sociale ed economica.

Amina Mama è una studiosa, attivista e direttrice di Feminist Africa pubblicato dall’African Gender Institute di Cape Town. Inoltre è direttore del Women and Gender Studies all’Università di California, Davis. Articolo tradotto per gentile concessione di openDemocracy.

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